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Ma quindi è finita la guerra a Gaza?

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Partiamo come sempre dalle domande: oggi dalla domanda di Valeria:

“Ma quindi adesso la guerra a Gaza è finita?”

No, cara Valeria. In realtà non è ancora finito un bel nulla.  O meglio: ci sono stati alcuni importanti passi verso la pace. Che i cannoni stanno tacendo. Che Israele si è ritirata dal nord della striscia di Gaza. Che altri venti ostaggi israeliani sono stati liberati da Hamas. Così come sono stati liberati quasi 2000 palestinesi detenuti da Israele. Di sicuro, oggi a Gaza stanno meglio di una settimana fa.  Ma la possiamo chiamare pace, questa?

Leggiamo la definizione di pace sul dizionario:

La pace è la situazione contraria allo stato di guerra, garantita dal rispetto dell'idea di interdipendenza nei rapporti internazionali, e caratterizzata, all'interno di uno stesso stato, dal normale e fruttuoso svolgimento della vita politica, economica, sociale e culturale.

Ecco: forse quella che è appena stata siglata a Sharm el Sheik non è una pace, ma una tregua. In cui di certo non si sancisce alcun minimo rapporto di interdipendenza tra Israele e Palestina, o anche solo tra israeliani e palestinesi. E nel contesto del quale, non c’è nemmeno un progetto di vita normale e fruttuosa, per gli abitanti di Gaza. Che poi: siglata. Il documento in venti punti non l’hanno firmato né il governo israeliano né tantomeno Hamas. Ad apporre le loro sigle su quel documento sono stati il presidente Usa Donald Trump, quello egiziano al Sisi, quello turco Erdogan e il premier del Qatar Al Thani. Perché mancano proprio le firme delle due forze in guerra? Mistero. Oddio, fino a un certo punto. Perché al netto degli ostaggi e dei prigionieri, sugli altri punti dell’accordo siamo ancora in alto mare.

Partiamo da Hamas. Che stando al punto sei dell’accordo di pace proposto da Donald Trump avrebbe dovuto smantellare il proprio arsenale militare. E che invece, due giorni dopo la firma dell’accordo, ha giustiziato sette uomini accusati di collaborazionismo con Israele. Un video, verificato da Reuters, mostra queste sette persone che vengono trascinate in uno spiazzo affollato di Gaza City, costretti a inginocchiarsi e poi freddati, di spalle.  Quelle persone fanno parte dei Dogmush, un clan famigliare che si contende da sempre con Hamas il potere a Gaza. Un clan che faceva da polizia per Al Fatah, quando ancora comandava nella Striscia. Che ha poi aderito allo Stato Islamico. E che, dicono quelli di Hamas, durante la guerra ha collaborato con Israele.

Al netto della brutalità dell’esecuzione, questo video è un segnale importante. I miliziani di Hamas sono ricomparsi per le strade di Gaza City poche ore dopo la firma degli accordi di Sharm el Sheik. Un segnale di presidio del territorio e del potere che certo non fa pensare a un’immediata smobilitazione. Tanto più se gli americani e gli israeliani pensano di sostituirli coi Dogmush. Non a caso, il commento di Trump è stato: “O abbandonano le armi, o li disarmiamo noi”.

Passiamo a Israele, invece.  Che stando agli accordi, dovrebbe permettere l’ingresso nella striscia di aiuti umanitari. E dovrebbe permettere agli sfollati della Striscia di tornare alle loro case. O, perlomeno, di ricostruirle.  Niente di tutto questo, per ora.

Stando agli accordi di Sharm el Sheik Israele avrebbe dovuto far entrare 600 camion di aiuti al giorno, 400 dei quali sono bloccati da mesi al valico di Rafah, tra la striscia e l’Egitto. Immaginatevi quanti sono 600 camion al giorno. Sono camion pieni prevalentemente di cibo, circa 6mila tonnellate al giorno, per circa 2 milioni di persone. Ecco: Israele ha detto che per il momento non riaprirà il varco di Rafah e che dimezzerà il numero di camion di cibo, medicine e altri aiuti umanitari che potranno entrare nella Striscia di Gaza perché Hamas non ha restituito tutti i corpi degli ostaggi uccisi. Ne mancano circa venti e Hamas dice che non li trova, in mezzo alle macerie. A causa di questi venti corpi mancanti, circa due milioni di persone si troveranno a fare i conti con la metà degli aiuti umanitari che spetterebbero loro, dopo mesi di carestia, dopo mesi senza medicinali, dopo mesi senza nulla.

Non solo. Perché mentre centinaia di migliaia di persone sono in marcia verso il nord della Striscia, per tornare a casa, Israele ha minato numerosi dei pochi edifici rimasti in piedi. Un modo, forse il più crudele di tutti, per dire ai gazawi che quella non sarà mai più casa loro.  Nel frattempo, nulla si sa sulla ricostruzione della Striscia. Ma è uscito uno studio, qualche giorno fa, che dà l’idea della devastazione che Israele ha messo in atto a Gaza. E dello sforzo immane che ci vorrà per cancellarne le tracce. Dice, questo studio di due ingegneri, Samer Abdelnour e Nicholas Roy, che potrebbero volerci 37 anni solo per smaltire le macerie di Gaza, pari a circa 36,8 milioni di tonnellate, prodotte fino al 1 dicembre del 2024. Per la cronaca: secondo i piani di Trump, Gaza dovrebbe essere ricostruita in cinque anni. E questo dice molto, se non tutto, sulla estrema aleatorietà di quel piano in venti punti. E su cosa abbiamo sprecato fiumi di retorica nelle ultime settimane.

Ultima cosa, che non guasta mai ricordarla: nel frattempo il ministro delle finanze Bezael Smotrich ha dato il via al piano E1 in Cisgiordania, che prevede la nascita di 3400 nuovi insediamenti illegali di coloni israeliani per collegare Gerusalemme Est e l'insediamento illegale di Ma'ale Adumim.  Un piano che di fatto ha lo scopo di tagliare i collegamenti tra il nord e il sud della Cisgiordania, che in teoria è terrorio sovrano dell’Autorità Nazionale Palestinese. Un piano che gli accordi di pace di Sharm el Sheik né i 20 punti di Trump menzionano.  E che rappresenta, nel silenzio complice di tutto l’Occidente, la pietra tombale di ogni soluzione che preveda due popoli e due Stati.

Rileggiamo ancora una volta la definizione di pace sul dizionario: la situazione contraria allo stato di guerra, garantita dal rispetto dell'idea di interdipendenza nei rapporti internazionali, e caratterizzata, all'interno di uno stesso stato, dal normale e fruttuoso svolgimento della vita politica, economica, sociale e culturale.

La domanda la faccio io a voi, ora: se la pace è questa, questa è pace?

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