Iscriviti a Rumore.
La newsletter di Fanpage.it contro il silenzio

Ciao,
se dovessi scegliere una parola per il 2025 – giochino molto in voga di questi tempi – scegliere guerra. Perché anche quest’anno ce ne sono state più di cento in giro per il mondo. Perché alcune – a Gaza, in Sudan, nella Repubblica Democratica del Congo – stanno producendo massacri indicibili. Perché sappiamo benissimo iniziarle e farle continuare, ma a quanto pare facciamo enorme fatica a farle smettere. Perché Donald Trump ha pure cambiato nome al Dipartimento della Difesa – troppo femminile, dice – rinominandolo, per l’appunto, dipartimento della guerra. Perché pure noi italiani partecipiamo alla corsa ad armarci, e un italiano su due sarebbe pure favorevole al ritorno alla leva obbligatoria, per “insegnare la disciplina ai giovani”.
Peccato manchi all’appello qualche guerra che non fa morti, ma salva le vite: quella contro la povertà, o quella contro il cambiamento climatico. Evidentemente, oggi come oggi, difendere i confini è molto più interessante che difendere la vita, o la Terra.
La guerra non è un'occasione per l' economia, industrie belliche, occupazione, profitto a go go e tutto quanto circola attorno?
Cosmo Damiano
Ciao, e grazie mille per la tua domanda.
Penso che la guerra non sia un’occasione per l’economia ma un’illusione contabile. Sì, qualcuno incassa – industrie belliche, appalti, profitti che schizzano – ma non è crescita: è un travaso. Si spostano soldi pubblici verso tasche private, mentre tutto il resto si impoverisce. È come chiamare “opportunità” un incendio solo perché fa lavorare i pompieri. Lo diceva con lucidità anche Francesco Vignarca di Rete Pace disarmo qualche giorno fa: oggi si sta costruendo una narrazione per cui il riarmo appare naturale, inevitabile, persino utile. E ogni volta che un vertice militare parla di posture “proattive” o perfino di “attacchi preventivi”, accade una cosa semplice: si legittima l’idea che la guerra non sia un fallimento, ma un settore produttivo. Una filiera come un’altra. Ma un’economia che funziona solo quando tutto il resto va a pezzi non è economia: è dipendenza. È un mondo che preferisce la scorciatoia delle armi alla fatica della politica. La guerra non crea ricchezza: la sottrae. E per ogni euro che ingrassa qualcuno, lascia un vuoto, democratico, sociale, umano, che paghiamo tutti noi.
Francesca Moriero, redattrice area Politica Fanpage.it
La mia non era tanto una domanda quanto una riflessione. Nella risposta pubblicata sul caso della “famiglia del bosco”, parlare di bambini isolati è alquanto ridicolo. Pensiamo a quanto tempo passano da soli i bambini, con i genitori impegnati a scrollare il cellulare piuttosto che a badare loro. E non sia mia che leggano un libro o che si impegnino in altro.
Stefania
Lo spunto offerto da Stefania è prezioso e rimette a fuoco una verità scomoda. Molti bambini crescono immersi in un ambiente iper-connesso che però anziché avvicinare, allontana e isola. Si resta perennemente raggiungibili, ma sempre più soli, con relazioni filtrate da uno schermo e con un benessere emotivo messo alla prova da ritmi, immagini e stimoli che non lasciano tregua. Questo isolamento digitale è reale e le sue conseguenze, sul piano cognitivo e relazionale, sono ormai evidenti alla comunità scientifica. Proprio per questo può sembrare paradossale che venga definito “isolato” chi vive all’aria aperta, in una quotidianità condivisa e lontana da dispositivi. La vicenda della casetta nel bosco, però, non riguarda un semplice stile di vita alternativo. Il Tribunale dell’Aquila ha motivato l’allontanamento dei tre bambini con elementi che superano la contrapposizione tra tecnologia e natura. Da un lato, le condizioni igienico-sanitarie compromesse dall’assenza di acqua corrente ed elettricità, fondamentali per la salute dei minori. Dall’altro – e qui arriviamo al punto sollevato dalla lettrice – la rinuncia alla scuola che, combinata a un contesto abitativo completamente separato dalla comunità, impediva ogni reale contatto con coetanei e figure educative. Il nodo, dunque, non è l’intento di uniformare quei bambini a un modello contemporaneo dominato dagli schermi, bensì la necessità di garantir loro preziose occasioni di incontro, di apprendimento e di scoperta. L’isolamento, qualunque forma assuma, sottrae strumenti per crescere e riconoscersi nel mondo. E se la solitudine digitale va affrontata con serietà, è altrettanto essenziale non sostituirla con un’altra solitudine, forse meno appariscente ma non meno profonda.Indipendentemente dal giudizio personale sul provvedimento del Tribunale, mettere sullo stesso piano i minori ipnotizzati dagli schermi ma comunque inseriti in una rete di socialità garantita dalla scuola, e bambini privati in partenza dell’accesso al mondo reale, rischia pertanto di spostare il baricentro della vicenda. Il punto non è la modernità digitale, ma il diritto dei minori a crescere dentro una comunità viva e pulsante.
Niccolò De Rosa, redattore area Wamily
Sto iniziando a sospettare che in questi attacchi alla libera stampa, dopo la CGIL, ci potrebbero essere servizi deviati o magari controllati. È possibile?
Salvatore
Il raid nella redazione di Torino del quotidiano La Stampa, avvenuto venerdì 28 novembre durante la manifestazione ProPal al grido di “Giornalista terrorista, sei il primo della lista”, mentre la sede era vuota per via dello sciopero indetto dal sindacato di categoria per il rinnovo del contratto, è stato rivendicato qualche giorni fa dal Cua, collettivo universitario autonomo di Torino. In un post pubblicato sui social, il collettivo ha promesso altre azioni violente (“ben vengano giornate come quella di venerdì”, scrivono). L’azione, definita ‘dimostrativa’ è stata compiuta per sanzionare i giornali: “La spontaneità della rabbia, accumulata in due anni di bugie, si sfoga nella redazione, senza che nessuno si faccia male… o che avvengano azioni eclatanti, a meno che per eclatante intendiamo fare un paio di scritte sui muri o gettare a terra qualche giornale del giorno precedente”. In pratica un post per minimizzare e giustificare il blitz. La posizione del Cua, considerato molto vicino al centro sociale Askatasuna, è ora al vaglio degli investigatori, per cercare di capire chi ci sia davvero dietro l’attacco. Mentre il Viminale vuole verificare se ci siano state falle nella gestione dell’ordine pubblico, che in qualche modo possano aver favorito l’assalto. Il prefetto Donato Cafagna ha denunciato l’esistenza di “una sorta di strategia per mettere in scacco la città”, una lettura condivisa anche dal ministro dell’Interno Piantedosi, secondo cui in più di un’occasione si sono registrate “azioni finalizzate ad affermare con la violenza le ragioni di chi ha solo l'obiettivo di porre in essere attività sovversive e squadristiche”. Questo a grandi linee il quadro, Salvatore. Non ci sono evidenze in questo momento in merito al coinvolgimento di cosiddetti ‘servizi deviati’, espressione con cui in genere di indicano presunti pezzi di servizi di intelligence implicati in vario modo in strategie della tensione o depistaggi, che avrebbero potuto operare al di fuori di canali istituzionali. A questo stadio delle indagini non è emerso alcun collegamento tra queste dinamiche e i fatti accaduti a La Stampa, e ipotizzarlo adesso sarebbe pura speculazione. Purtroppo quello che è certo in questo momento è che l’episodio ha inferto un colpo alla causa palestinese, e ha fatto un favore a chi giorno dopo giorno prova ad annacquarne o oscurarne le ragioni.
Annalisa Cangemi, vice capa area Politica Fanpage.it
Aggiornamento “Amichetti d’Italia”
L’inchiesta di Fanpage.it “Amichetti d’Italia” ha svelato un sistema di appalti e consulenze affidate dall’Istituto Romano San Michele – la seconda Aziende Pubblica di Servizi alla Persona più grande del Paese – a persone e società legate a diverso titolo a Fratelli d’Italia e in particolare a politici della corrente ‘democristiana’ di Fdi, capeggiata dal deputato Luciano Ciocchetti. Dopo la pubblicazione dell’inchiesta, i partiti di opposizione sono andati all’attacco: Pd, M5S e Avs hanno presentato interrogazioni sui fatti riportati nel nostro lavoro ai vertici della Regione Lazio – che ha il compito di vigliare sul San Michele e le altre Asp -, ma anche in parlamento, chiamando in causa direttamente anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Di fronte a questo pressing, il presidente del Lazio Rocca e la giunta regionale non sono rimasti a guardare. Intanto è stata congelata la posizione del presidente del San Michele, il meloniano GIovanni Libanori, il cui mandato scadeva il 26 novembre. Il rinnovo sembrava cosa fatta, ma dopo le rivelazioni di Fanpage, la pubblicazione dell’atto di (ri)nomina è stata per ora bloccata. Non solo, come annunciato da Rocca nelle ore successive alla pubblicazione dell’inchiesta, il 27 novembre, la giunta regionale ha costituito un nucleo di verifica tecnica indipendente “per accertare la legittimità delle procedure attuate nel corso degli anni 2024 e 2025 dall’Istituto Romano San Michele in materia di appalti, affidamenti e contributi”. Secondo quanto ci risulta, già la scorsa settimana gli ispettori nominati dalla Regione hanno varcato il cancello della Asp per iniziare la loro attività di verifica. Nel frattempo, anche l’Autorità Nazionale Anticorruzione avrebbe acceso un faro sulla vicenda. La storia di “Amichetti d’Italia” insomma è tutt’altro che chiusa e nelle prossime settimane vi terremo aggiornati sui suoi sviluppi.
Marco Corrado Billeci, videoreporter Fanpage.it