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Se c’è un merito del dibattito che si è aperto sugli studenti che “rifiutano” di fare l’esame orale alla maturità, è quello di aver mostrato quanto un certo mondo di opinion maker, commentatori e politici di lungo corso sia incattivito e ormai incapace di uscire dai propri schemi mentali. Del resto parliamo di chi ha solo risposte giuste e mai dubbi, di chi da anni monopolizza il dibattito pubblico, avendo la possibilità di pontificare dai principali giornali italiani e una sedia garantita nei talk show delle reti generaliste. Del "peggior conservatorismo" che ormai rifiuta pure le paillettes e non ha paura di rimpiangere i tempi dei grembiuli, della severità come caratteristica imprescindibile di ogni buon insegnante.

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Insomma, abbiamo visto ancora una volta lo stesso schema, incluso l’intervento “immediato” della politica, con il ministro Valditara che ha annunciato un intervento per bocciare non si capisce bene chi (qui vi abbiamo spiegato i limiti della proposta del ministro). È vero che parliamo di pochi casi, ma il dibattito che si è determinato ha visto anche emergere posizioni interessanti, per nulla scontate, che vale la pena di considerare. A partire da un approccio più laico e meno rigido, che consiste nel rispettare scelte individuali e sforzarsi di comprenderle, senza che ciò comporti la necessità di giustificarle o indicarle come modelli. È un esercizio interessante, che mi sentirei di consigliare un po’ a tutti: ascoltare, capire ciò di cui si parla, contribuire al dibattito solo se si ritiene di apportare elementi nuovi, valutare se è il caso, proprio se è il caso, di emettere sentenze senza appello.

Partirei da un presupposto, che mi sembra chiarissimo prima di tutto agli studenti che hanno scelto, in modi e termini diversi, di marcare una discontinuità rispetto al percorso di decine di migliaia di loro colleghi. In discussione non c’è mai la possibilità di cancellare in un sol colpo modelli e sistemi che possono avere ragioni specifiche, per non dire “tecniche”, legate alla valutazione del merito o delle capacità individuali. Non siamo al 18 politico, all’abolizione dei voti o cose simili. Almeno non ancora (purtroppo o per fortuna, lascio a voi deciderlo).

Emma Ruzzon, presidente dell’Unione degli Universitari di Padova, lo spiega in modo eccellente su La Repubblica: “Io non lo so se i voti vadano completamente aboliti, certo ora non stanno funzionando. Le classi sono piene di studenti che rinunciano alla vita fuori dalle mura scolastiche pur di non incrinare la media. Basta sport, musica, attivismo. Non solo: se senti che il voto è tutto ciò che hai, allora sì che un'insufficienza pare la fine del mondo. Allora sì, che la scuola diventa fucina di ansia e stress, e non dovremmo stupirci troppo a ogni report sullo stato della salute mentale tra i giovani. Tenere il voto come baricentro significa che al piacere di apprendere si sostituisce il freddo nozionismo”.

C’è semmai una riflessione sul senso di un esame ulteriore al termine di un percorso di studi lungo almeno cinque anni, condivisa anche da tanti docenti. C’è la critica a un modello di educazione che, in effetti, non mi sembra abbia funzionato alla perfezione negli ultimi decenni. C’è la condanna di un sistema che, con la sua sostanziale indifferenza alla “presa in carico” degli individui una volta varcata l’uscita, ha portato alla destrutturazione culturale di un intero Paese. C’è l’insofferenza al tempo dell’utilitarismo, quello in cui tutto deve servire a qualcosa, tutto deve essere misurabile, tutto deve avere una precisa collocazione. E c’è la consapevolezza che il modello studia-merita-lavora-produci-consuma semplicemente non sia soddisfacente, non sia ciò cui tanti studenti desiderano aderire per il resto della loro vita. Anche perché spesso sul "merito" influiscono altri fattori, come la possibilità di avere accesso a percorsi formativi migliori, a strumenti didattici più adeguati, a una gamma di esperienze diversa a seconda della capacità economica della famiglia da cui si proviene o, semplicemente, del luogo in cui si vive.

Il pedagogista Daniele Novara su Avvenire trova le parole giuste, quelle che davvero potrebbero aprire una discussione proficua, più del manicheismo o delle stroncature che sentiamo quotidianamente in televisione:

Chi li liquida come "immaturi" sbaglia prospettiva. Questi studenti e studentesse stanno mettendo in discussione un sistema che spesso li valuta con criteri standardizzati e poco attenti al loro reale percorso di crescita, fuori e dentro le aule scolastiche. Dopo un itinerario scolastico già incentrato su ansie, classifiche e competizione, l'orale della maturità diventa, per molti e molte, il picco di stress finale e non più un'occasione di autentica valorizzazione del proprio viaggio di istruzione e maturazione personale.

Serve un'altra idea di scuola. Una scuola che metta davvero al centro l'apprendimento, le relazioni, la crescita. Che sia dialogica, partecipativa, capace di accompagnare e non semplicemente giudicare. Una scuola che sappia distinguere tra autorità e autorevolezza, che scelga l'ascolto invece del controllo, e che consideri ogni studente nella sua unicità. Anche la valutazione deve andare in questa direzione: diventare uno strumento di accompagnamento, capace di riconoscere i progressi e non solo di assegnare un voto. In grado di concepire l'errore come necessario nel processo di apprendimento e non come stigma da evitare a tutti i costi.

È la nevrosi dei nostri anni: l’ansia, la pressione sociale, il senso costante di inadeguatezza che si traducono nell’ossessione per le apparenze, per i risultati. Per traguardi che forse nemmeno desideriamo, ma che in qualche modo ci sentiamo di dover raggiungere. E che il modello di educazione che abbiamo costruito contribuisce ad alimentare. Insomma, ci sarebbero davvero le condizioni per un dibattito interessante, diremmo quasi stimolante. Che invece non sembra essere stato recepito, almeno tra i consiglieri del ministro Valditara, come racconta Tomaso Montanari sul Fattoquotidiano:

Ci sono pochi dubbi circa il fatto che questa avvilente ragioneria del "merito" sia esattamente il contrario di ciò cui dovrebbe condurre il ciclo scolastico superiore. Con una reazione tipica del più ottuso autoritarismo, Valditara minaccia invece di cambiare non la degradante contabilità, ma proprio il margine di libertà che essa, preterintenzionalmente, lascia: "Se un ragazzo non si presenta all'orale, oppure volontariamente decide di non rispondere alle domande dei suoi docenti non perché non è preparato, cosa che può capitare, ma perché vuole ‘non collaborare' e quindi ‘boicottare' l'esame, dovrà ripetere l'anno". In altri termini: se un candidato fa scena muta perché non ha aperto libro, sarà promosso (laddove abbia altrove accumulato crediti sufficienti); ma se la scena muta è argomentata con un discorso ‘contro' questa scuola, allora sarà bocciato. […] Ma la maturazione, l'autonomia, la responsabilità non sono forse dimostrate in sommo grado proprio dalla decisione di non partecipare al gioco truccato di una scuola indotta a insegnare tutto tranne che il pensiero critico? E non sono forse certificati dalla scelta di farlo con argomentazioni mature e assai bene esposte, e di farlo giocando contro il sistema le regole del sistema stesso? Queste ragazze e questi ragazzi appaiono infinitamente più maturi del ministro della scuola: che invece, sì, meriterebbe una sonorissima bocciatura.

Non è semplice dire se le ricadute politiche della discussione fossero inevitabili, nei fatti però non possiamo che registrare una certa comunanza tra il moralismo bacchettone e le posizioni assunte dagli ambienti vicini alla destra di governo. I cui giornali picchiano duro da giorni sulle scelte degli studenti, immancabilmente chiamando in causa “la sinistra”, il ’68, i collettivi e via discorrendo. Vi confesso che, in una prima versione di questa newsletter, avevo selezionato una serie di contenuti e riflessioni. Per poi rendermi conto che dicevano sostanzialmente la stessa cosa, riproponendo versioni più o meno sensate del peggior conservatorismo: quello dei “bei tempi andati”, della tradizione come antidoto alle derive della contemporaneità. Ci sono però due piccole perle, che almeno vi strapperanno un sorriso.

Marco Patricelli su Libero parla di “applausi da sinistra peggiori delle scene mute agli esami di maturità” e prova a mettere in correlazione la scelta degli studenti di non rispondere all’orale con i frutti del ’68, che avrebbero “tritato l’ossatura della scuola italiana nel nome del nozionismo e del diritto alla promozione”. Ora, se non avete capito il salto logico, preparatevi, perché in un passaggio successivo l’editorialista riesce a mettere in correlazione le mancate risposte all’orale della maturità con Ilaria Salis e le case occupate. Già:

In assenza di schitarrate e di esami collettivi sessantotteschi, un coerente minimo garantito come riconoscimento del valore del silenzio e via con la laurea. Una vera gioia, poi, affidarsi a un medico ex contestatore, a un avvocato ex nemico del sistema, a un ingegnere zitto all'esame di Stato per rifiuto delle formule matematiche e fisiche, a un architetto formato col professor Google. Che lo faccia l'eurodeputata Ilaria Salis, che di scuola ne ha vista pochina sia per frequenza che per lavoro (e forse è un bene), magari ci sta. Ma un conto è occupare le case altrui, un conto disoccupare ideologicamente gli studenti di oggi che non accettano la competitività e domani si faranno travolgere ballando sul Titanic del mondo del lavoro.

E, sempre sul quotidiano diretto dall’ex portavoce di Giorgia Meloni, Simona Bertuzzi esonda, parlando “da mamma e non da giornalista”:

Avete fatto una cazzata enorme di cui vi pentirete amaramente negli anni a venire. E non c'è niente di coraggioso nel vostro gesto ma solo una scelta vigliacca di non sostenere la prima prova vera della vita, anzi sostenerla a metà perché lo scritto è facile e invece all'orale tocca studiare. […] Passare l'anno incardinati nelle regole come soldatini e poi presentarsi davanti alla commissione fatidica e dire "oddio signori questa scuola non mi piace" è una scemenza. Certo ci sono madri e madri, lo dico con rispetto. La mamma di Maddalena ha accolto la propria figlia a braccia aperte e le ha dato una pacca sulla spalla per la letterina di protesta scritta nottetempo e letta davanti ai prof sulle inefficienze della scuola e su quel vagabondare negli anni senza sentirsi mai capita. Ma la maggior parte dei genitori si incazzerebbe come iene davanti a un figlio che viene meno al suo dovere forse il primo della vita perché ha paura di non sapere, perché fa figo coi compagni, perché non c'ha avuto voglia. Senza contare il peso che la decisione avrà sui genitori. Pensare un pochino a loro anziché esigere eterna comprensione e amicizia.

Al di là dei toni apocalittici, alla mamma forse sarà sfuggito, ma alla giornalista andrebbe ricordato che questi ragazzi i sacrifici li hanno ugualmente fatti per cinque anni e la promozione l’hanno meritata, appunto, sul campo. Rifiutando un ultimo atto, per scelta consapevole e meditata, e assumendosene responsabilità e conseguenze. Avremmo fatto tutti lo stesso? No, tant’è che non l’abbiamo fatto. Siamo per questo migliori di loro? Beh.

Adriano

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