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Il Governo dice di combattere la violenza sulla donne, ma azzera i fondi per il recupero dei maltrattanti in Lombardia

Il Governo ha azzerato il trasferimento di fondi di Regione Lombardia per i percorsi di recupero per gli uomini autori di violenza. A Fanpage.it, la reazione di esperti in materia e mondo politico.
A cura di Ilaria Quattrone
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Immagine di repertorio
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Il Governo ha azzerato il trasferimento di fondi di Regione Lombardia per i percorsi di recupero per gli uomini autori di violenza. La notizia ha sollevato non poche perplessità e polemiche considerato soprattutto l'elevato numeri di femminicidi con cui si è chiuso il 2023. "Mentre in tutta Italia ci si chiede come combattere la piaga del femminicidio, il Governo pensa bene di azzerare i fondi per i programmi di recupero degli uomini autori di violenze fisiche o psicologiche sulle proprie partner o ex partner. Se non è un controsenso questo, niente lo è. Il centrodestra dimostra disinteresse e sciatteria e le responsabilità chiare: la premier Meloni in primis, seguita da Attilio Fontana e dalla sua assessora Elena Lucchini, della Lega, che silenziosamente accettano la decisione del Governo", ha affermato a Fanpage.it il consigliere regionale Pietro Bussolati.

Ma perché sono così importanti questi percorsi e di conseguenza questi fondi? A spiegarlo sempre a Fanpage.it è la professoressa dell’Università Statale di Milano Isabella Merzagora che ha ideato il programma Savid (Stop alla Violenza domestica): "L’idea è quella di intercettare le situazioni pericolose. Abbiamo stipulato una convenzione con la Questura di Milano indirizzata agli uomini accusati di stalking. Il nostro lavoro si basa sulla prevenzione terziaria: se hanno commesso un reato, evitiamo che lo rifacciano o facciano di peggio".

"È quasi tautologico che se tagli fondi, ci sono più rischi. Sarebbe però importantissimo che più che destinare fondi a pioggia per i percorsi per uomini autori di violenza, che questi vengano condotti da persone con una preparazione adeguata. Servirebbe soprattutto una formazione criminologica, che molti non hanno. Non tutti, per esempio, sono in grado di stilare una valutazione di pericolosità".

"Non bastano i colloqui psicologici, servono anche quelli criminologici. Gli uomini autori di violenza vanno responsabilizzato rispetto al loro atteggiamento di discriminazione di genere".

Nel caso del suo progetto, alcuni degli utenti, arrivano tramite il tribunale di Sorveglianza: "È una misura alternativa al carcere. Se non iniziano il percorso, tornano in galera. Tocca poi a noi, attraverso approcci interlocutori, portarli ad affrontare il percorso e poi responsabilizzarli.Alcuni arrivano per il tramite degli avvocati. Nel nostro caso specifico, anche grazie alla Questura. In questo caso, sono perlopiù stalker. Non tutti però scelgono di affrontare il nostro programma. In questo caso, infatti, l’unico deterrente è che se ricapita un episodio persecutorio, il fatto che non abbiano partecipato sarà preso in considerazione".

Tra gli uomini che decidono di affrontare il percorso, ci sono anche molti giovani: "Non esiste più lo stereotipo dell’uomo maturo, cresciuto in un ambiente di discriminazione di genere, che commette questi reati".

Tra le realtà lombarde che lavora con gli uomini autori di violenza c’è il progetto “Uomini – non più violenti si diventa” che è stato attivato nel 2012 dall’associazione culturale Forum Lou Salumè, fondata dalla psicanalista Valeria Medda insieme ad altre colleghe analiste. L’organizzazione ritiene – a differenza di altre iniziative – fondamentale che siano gli uomini stessi a sostenere i costi del loro percorso e che tutti i fondi pubblici vadano alle vittime di violenza. Sostenere da soli i costi, infatti, sarebbe un'ulteriore assunzione di responsabilità da parte dell'autore di violenza.

"Il nostro obiettivo è quello di costruire una cultura dell’intervento con gli uomini autori di violenza. Il progetto prevede una presa in carico con una psicoterapia focalizzata sul tema della violenza", ha spiegato a Fanpage.it la presidente Chantal Podio.

"Abbiamo realizzato questo progetto perché è interesse delle donne che gli uomini facciano un cambiamento. Gli uomini sono avvantaggiati sul piano sociale, economico e sulla presenza all’interno dello spazio pubblico. Sono però penalizzati nella dimensione della relazione e in quella emotiva. Molto spesso le donne sono il loro welfare emotivo. Gli uomini sono spesso dipendenti dalla compagna e in tal caso non possono lasciare libera la compagna di cui hanno bisogno. Quando la relazione finisce, l’affermazione classica “io non posso vivere senza di lei” si trasforma in “non vivrai senza me".

"Ci teniamo a sottolineare che siamo un’associazione culturale di donne: il percorso lo facciamo condurre a terapeute. In questo modo non dobbiamo nemmeno spiegare alle professioniste cosa sia il patriarcato o la diseguaglianza di genere perché tutte noi lo sperimentiamo da quando siamo nate. Abbiamo consapevolezza del fenomeno molto più degli uomini. Fare un percorso con una donna significa anche sperimentare direttamente l’autorevolezza alle donne", ha affermato Podio.

L’obiettivo dell’associazione è quello della prevenzione e quindi di intercettare situazioni di violenza prima che degenerino agganciando gli uomini e favorendo percorsi di cambiamento: "Il nostro progetto Uomini non più violenti si diventa ha una linea telefonica e il sito nonpiuviolenti.it. Dall’approvazione del codice rosso, riceviamo molte richieste da parte di avvocati. Per avere una sospensione condizionale della pena è infatti necessario intraprendere un percorso. È chiaro che, all’inizio di questo percorso la motivazione è estrinseca per ottenere un beneficio di legge. Sta quindi a noi costruire durante il percorso una motivazione reale che possa spingere a un reale cambiamento".

L’uomo che si rivolge a loro non è solo colui che deve affrontare il percorso in codice rosso: "Il nostro target principale è il regime volontario. Ci contattano uomini spaventati dopo aver compiuto un gesto violento. Noi vorremmo continuare ad avere prevalentemente uomini che ci contattino volontariamente. Il nostro percorso si sostiene attraverso il contributo diretto degli uomini: sono loro a pagare".

"Per noi questa è un’ulteriore assunzione di responsabilità. È la prova di un investimento reale nel percorso perché tutto quello che ha valore tutti noi lo paghiamo. Il pagamento è anche un atto di riparazione nei confronti del soggetto che subisce violenza. Non possiamo mettere la vittima e l’autore sullo stesso livello: una donna vittima di violenza ha diritto a un risarcimento mentre l’uomo autore di violenza dovrebbe averne l’obbligo".

Per l’associazione, anche il percorso previsto dal Codice Rosso, che è alternativo alla carcerazione, dovrebbe avere un costo: "Anche perché in questo momento in cui i fondi sono davvero pochi, gli stessi dovrebbero primariamente essere utilizzati per donne vittime di violenza. In particolare per il loro supporto psicologico, il reinserimento abitativo e lavorativo". E per quegli uomini che hanno difficoltà economiche, che possono essere dimostrato dall’Isee, "potrebbe essere previsto un fondo così come accade col gratuito patrocinio".

Per il momento, l’associazione ha promosso sul proprio sito il cosiddetto colloquio sospeso: "Chiediamo agli uomini che possono dare un contributo economico per il percorso di coloro che sono in difficoltà". Quando il progetto è stato ideato "è nato primariamente con l’idea di intercettare uomini che intendevano volontariamente affrontare un percorso di cambiamenti. Molti non sanno che il lavoro che facciamo è un lavoro di prevenzione secondaria ovvero lavoriamo quando la violenza è già presente".

La prevenzione secondaria, per le psicanaliste del progetto, è la più carente: “È necessario agganciare gli uomini quando sono presenti campanelli d’allarme. La cultura dell’intervento vuol dire costruire, fare un lavoro psicologico, che possa modificare la struttura della personalità e costruire un comportamento alternativo alla violenza”.

Anche perché, dati alla mano, la presidente ha spiegato che i servizi sociali riescono a intercettare solo il 7 per cento del fenomeno: "Il 93 per cento non è intercettato e consiste in dinamiche di controllo o atteggiamenti possessivi. La violenza è nella quotidianità: è nelle relazioni di persone che diremmo normali ordinarie. La maggior parte delle persone che hanno ucciso le compagne, non hanno una malattia psichiatrica. Sono soggetti a cui la cultura patriarcale offre la violenza come strumento per poter risolvere i conflitti".

"Dobbiamo iniziare a pensare che un uomo, in fase di separazione soprattutto, potrebbe diventare aggressivo. La separazione, infatti, è un momento delicato. È una condizione di crisi. Dobbiamo consentire alle donne di potersi sganciare dai loro compagni senza correre pericoli. Per questo le donne che si separano dovrebbero fare una valutazione del rischio in un centro antiviolenza se hanno preoccupazioni o vedono il compagno non accettare la fine della relazione", ha aggiunto.

Podio ha spiegato come sia necessario lavorare sulla formazione del personale: "Coloro che lavorano come noi in campo psicologico non sono allenati purtroppo a lavorare nelle dinamiche di violenza. Per questo abbiamo costruito una modalità di intervento. Per noi la violenza diventa un sintomo da disinnescare: diventiamo una sorta di artificieri. Partiamo dall’idea che la violenza maschile sia frutto di un gesto rabbioso. Quando arriva al suo apice porta il soggetto a commettere gesti mostruosi".

"È bene però ricordare che l’escalation della rabbia non incide sulla imputabilità. Non è una patologia: tutti possiamo arrabbiarci, ma se abbiamo una gestione adeguata di quest’emozione non perderemo il controllo".

"Non dobbiamo illuderci che un uomo che inizia un percorso sia pienamente consapevole della violenza messa in atto. L’assunzione di responsabilità e il riconoscimento che si è stati violenti è il frutto del percorso, non il suo presupposto. Per questo è essenziale parlare della violenza non in modo stigmatizzante presupponendo che chi è violento possa voler cambiare".

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