Com’è possibile che il dipendente che ha chiesto 80mila euro di risarcimento avesse duemila ore di ferie da smaltire

Ha fatto discutere la storia dell‘ex dirigente della Provincia di Varese che, una volta andato in pensione, ha chiesto che gli venissero liquidati ben 80.270 euro di ferie non godute: il dipendente, infatti, aveva maturato negli anni ben 1.996 giorni liberi, mai smaltiti in decenni di lavoro. Una richiesta presentata direttamente al Tribunale del Lavoro che l'ente pubblico ha respinto con fermezza, decidendo di costituirsi in giudizio: "La monetizzazione delle ferie viene meno quando non siano state godute per scelta volontaria del dipendente, che in questo caso ha effettivamente avuto la possibilità di esercitare il diritto fondamentale delle ferie".
Ma è davvero così? Come funziona, in generale? Ne parliamo con l'avvocato Cristiano Cominotto, esperto di diritto del lavoro e co-fondatore di Assistenza Legale A.L. "Un simile e anomalo accumulo di ferie (praticamente un anno lavorativo di giorni di riposo) sarebbe dovuto emergere prima, e qualcuno avrebbe dovuto intervenire", sono state le parole del professionista. "Ma la volontarietà è la discriminante principale: se verrà provato in giudizio che è stato il dipendente a non voler andare in ferie, dimostrando ad esempio che l’amministrazione non gli negò mai le ferie e anzi lo sollecitò a prenderle, l'ex dirigente non avrà diritto agli 80mila euro richiesti".

Quando vengono pagate al dipendente, se vengono pagate, le ferie accumulate e non smaltite?
In linea generale il lavoratore ha diritto alle ferie annuali retribuite, ma non può “monetizzarle” invece di goderne durante il rapporto di lavoro. La regola fondamentale, valida sia per dipendenti pubblici che privati, è che le ferie vadano godute come periodo di riposo e non scambiate con compensi in denaro, salvo casi particolari. L’obiettivo della legge è infatti tutelare la salute e il recupero delle energie psicofisiche del lavoratore (come sancito anche dall’art. 36 Cost.), assicurando che abbia effettivamente periodi di riposo ogni anno.
Queste ferie devono essere utilizzate obbligatoriamente entro determinati termini: due delle quattro settimane di ferie obbligatorie devono essere fruite nell’anno di maturazione, mentre le restanti due settimane possono essere utilizzate entro i 18 mesi successivi alla fine dell'anno di maturazione ma i contratti collettivi possono prevedere termini più lunghi o modalità diverse di fruizione.
L'accumulo di ferie da un anno all'altro è consentito entro determinati limiti. Tuttavia, accumuli eccessivi e continuativi sono generalmente considerati irregolari e problematici, soprattutto nel settore pubblico, poiché rischiano di compromettere il diritto al riposo effettivo del lavoratore. La normativa del pubblico impiego, introdotta dal D.L. 95/2012 (convertito in L. 135/2012), è infatti più rigorosa e vieta espressamente la monetizzazione delle ferie non godute, salvo rare eccezioni.
Quali sono queste eccezioni? Quando e come vengono pagate le ferie non fruite?
Come detto, durante il rapporto di lavoro le ferie non possono essere convertite in compenso economico. Tuttavia, al termine del rapporto (licenziamento, dimissioni, pensionamento), il lavoratore ha diritto all'indennità sostitutiva per tutte le ferie maturate e non godute. Questa indennità viene calcolata sulla base della retribuzione globale di fatto del lavoratore, ossia considerando tutti gli elementi retributivi ordinariamente percepiti, compresi straordinari abituali, premi, indennità e altre voci stabili della retribuzione. Nella pratica, l’indennità per ferie non godute si determina dividendo la retribuzione annuale lorda del lavoratore per il numero di giorni lavorativi annuali, e moltiplicando il risultato per il numero di giorni di ferie residui non utilizzati.
È sempre stato così?
La disciplina delle ferie non godute ha subito un vero e proprio cambio di paradigma. Inizialmente, dopo la legge del 2012, l'interpretazione era molto rigorosa e l'onere della prova ricadeva sul lavoratore: doveva essere lui a dimostrare che la mancata fruizione era dipesa da "eccezionali e comprovate esigenze di servizio" e non da una sua scelta. In assenza di tale prova, il diritto al compenso era negato.
Un primo passo evolutivo si è avuto poi con la sentenza n. 95/2016 della Corte Costituzionale, la quale ha stabilito che il divieto di pagamento è legittimo solo se la mancata fruizione deriva da una scelta libera e volontaria del lavoratore, e non può penalizzarlo se la causa non gli è imputabile (es. malattia, esigenze di servizio).
La svolta decisiva è arrivata dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea con la sentenza del 18 gennaio 2024 (causa C-218/22). I giudici europei hanno sancito che la normativa italiana, nella parte in cui vieta in modo assoluto la monetizzazione per i dipendenti pubblici, è incompatibile con il diritto dell'Unione. La Corte UE ha chiarito che il diritto a un'indennità per le ferie non godute alla cessazione del rapporto è un principio fondamentale e irrinunciabile, che non può essere negato per mere ragioni di contenimento della spesa pubblica. L'elemento più dirompente di questa pronuncia è stata la netta inversione dell'onere della prova: non è più il lavoratore a dover giustificare il mancato riposo, ma è il datore di lavoro a dover dimostrare di aver fatto tutto il possibile per consentirne la fruizione.
La Corte di Cassazione si è pienamente allineata a questo orientamento (un esempio è la recentissima ordinanza n. 13691/2025). Oggi la situazione è chiara: il lavoratore, pubblico o privato, perde il diritto all'indennità solo se l'azienda (o l’ente) prova che ha scelto volontariamente di non riposare pur essendo stato messo in condizione di farlo e informato delle conseguenze. Questa evoluzione ha di fatto attenuato il rigore della legge del 2012, riconoscendo la monetizzazione come regola, salvo la difficile prova di una rinuncia volontaria del lavoratore.
C'è differenza tra il settore pubblico e quello privato?
Nel settore privato, la gestione delle ferie è disciplinata dall’ art. 2109 cc e dall’art. 10 del d. lgs. 66/2003. Il dipendente privato ha diritto ogni anno a un certo numero di giorni di ferie retribuite (stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi) e il datore di lavoro è tenuto a concordarne la fruizione, tenendo conto sia delle esigenze aziendali sia degli interessi del lavoratore. Durante il rapporto di lavoro, in linea di massima, le ferie non possono essere sostituite da retribuzione: il datore non può pagarle per far lavorare il dipendente al loro posto. Se però al momento in cui cessa il rapporto il lavoratore ha ancora ferie residue, deve essere liquidato il corrispettivo (ad esempio insieme al TFR, il trattamento di fine rapporto). Nulla vieta, inoltre, che i contratti collettivi prevedano ferie aggiuntive (oltre il minimo di legge) e che per queste ultime vi siano regole più flessibili.
Nel settore pubblico, invece, come già accennato, la normativa è (o meglio, era) più stringente. L’art. 5, comma 8, del D.L. 95/2012 – inserito nel Testo Unico del Pubblico Impiego (D.Lgs. 165/2001, come modificato) – stabilisce che ferie, riposi e permessi dei dipendenti pubblici sono obbligatoriamente fruiti secondo gli ordinamenti di ciascuna amministrazione e non danno luogo in nessun caso a trattamenti economici sostitutivi. Questo divieto valeva anche in caso di cessazione del rapporto per mobilità, dimissioni, pensionamento o raggiungimento dei limiti d’età. In pratica, per anni i lavoratori pubblici non hanno potuto contare su una liquidazione delle ferie non godute, a differenza dei privati. Oggi, dopo l’intervento della Corte di Giustizia UE e delle pronunce conseguenti, anche nel pubblico si è dovuto riconoscere che il lavoratore ha diritto all’indennità per ferie non fruite al termine del servizio, almeno quando la mancata fruizione non sia colpa sua.
In sintesi: nel privato la monetizzazione delle ferie non godute è vietata durante il rapporto ma ammessa e normale alla fine; nel pubblico la monetizzazione è per legge più severamente vietata, ma la giurisprudenza ha introdotto eccezioni importanti, imponendo il pagamento quando le ferie sono saltate per motivi non imputabili al lavoratore. In entrambi i settori, però, il messaggio di fondo è chiaro: il diritto alle ferie è fondamentale e va davvero goduto, non accumulato per farsi pagare.
Cosa succede, invece, quando non godere delle ferie accumulate è una scelta del lavoratore?
Alla luce di quanto esposto, possiamo individuare essenzialmente un caso generale in cui le ferie maturate non vengono pagate: quando il mancato godimento è dovuto alla volontà del lavoratore, cioè a una sua scelta libera o comunque a circostanze a lui imputabili. In altre parole, se il dipendente avrebbe potuto fare le ferie ma ha deciso di non farle, allora perde sia le ferie stesse sia il relativo compenso.
Esempi concreti sono il dipendente che si dimette con congruo preavviso ma non utilizza le ferie residue pur avendone l'opportunità oppure il lavoratore che, sapendo con largo anticipo la data del pensionamento, non pianifica il consumo delle ferie arretrate.
Nel caso specifico, l’ex dirigente pubblico che ha accumulato quasi 2mila ore di ferie viene appunto contestato su questo punto: la Provincia sostiene che le ferie non furono godute per sua scelta volontaria, dato che – ricoprendo un ruolo dirigenziale – aveva ampia libertà di organizzarsi e avrebbe potuto prendersi i giorni di riposo, ma non l’ha fatto. Se questa tesi verrà provata in giudizio (dimostrando, ad esempio, che l’amministrazione non gli negò mai le ferie e anzi lo sollecitò a prenderle), egli non avrà diritto agli 80mila euro richiesti. Dunque, la volontarietà è la discriminante principale.
Ma cosa deve fare il datore di lavoro per gestire correttamente le ferie dei dipendenti? È tenuto a obbligare il dipendente a smaltire le ferie accumulate?
Il datore di lavoro, pubblico o privato, ha l’obbligo giuridico di assicurare che i lavoratori fruiscano delle ferie annuali. Ciò non significa necessariamente trascinare fisicamente in vacanza il dipendente contro la sua volontà, ma comporta certamente una serie di azioni precise a suo carico. In particolare, il datore deve pianificare le ferie: organizzare, d’intesa con il lavoratore, un piano ferie annuale tenendo conto delle esigenze produttive e delle preferenze del dipendente. E ancora consentire effettivamente la fruizione: il datore non può impedire o ostacolare il godimento delle ferie; deve anzi favorirlo; informare e sollecitare il lavoratore: il datore deve avvertire per tempo il dipendente delle ferie maturate e non ancora godute, specie se stanno per “scadere” o accumularsi.
Possiamo dire quindi che sì, il datore di lavoro deve fare il possibile per “obbligare” di fatto i dipendenti a fare le ferie, perché la legge lo impone in via di principio. Naturalmente, si tratta di un obbligo nei limiti dell’organizzazione aziendale: il datore non può semplicemente ignorare il problema se un lavoratore non prende mai ferie. Deve intervenire pianificando o disponendo ferie forzate se necessario. Oltre quel punto, se il dipendente non collabora e lascia scadere il tempo, le ferie possono essere perse senza colpa del datore.
Per quanto riguarda il caso del dirigente di Varese?
Il caso del dirigente di Varese con 2mila ore accumulate in carriera è emblematico. Un monte-ferie così elevato (circa un intero anno lavorativo di ferie!) indica che per anni l’individuo ha fruito di pochissimi giorni di vacanza rispetto a quelli maturati. In una struttura organizzata, questo avrebbe dovuto far scattare allarmi. Sebbene le figure dirigenziali di alto livello godano di ampia autonomia e non siano soggette a timbratura, questa flessibilità non le esime dal rispetto delle regole. Questa autonomia non giustifica in alcun modo la mancanza di controllo.
La Provincia di Varese ha riconosciuto che c’è stato un “anomalo accumulo”, ciò lascia intendere che ora l’amministrazione prende le distanze da quanto avvenuto in passato, probabilmente sostenendo che la colpa fu del dirigente stesso che non si assentava mai. Resta il fatto che un simile accumulo sarebbe dovuto emergere prima, e qualcuno avrebbe dovuto intervenire: ad esempio, disponendo che il dirigente andasse in ferie per smaltire l’arretrato o quantomeno segnalando formalmente la cosa. Se ciò non è accaduto, significa che c’è stata scarsa vigilanza interna.