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Opinioni

La crisi dell’euro dalla Danimarca alla Grecia: i rischi per l’Italia

La Danimarca manda i tassi sui depositi sottozero, quelli sui bond greci schizzano alle stelle: sono le due facce della crisi dell’euro. Ecco cosa rischia l’Italia nei prossimi mesi.
A cura di Luca Spoldi
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Come due facce di una medaglia crepata, mentre la Danimarca taglia per la terza volta in pochi giorni il tasso sui certificati di deposito a -0,50% dal precedente -0,35%, nel tentativo di contenere il rialzo della propria divisa contro euro dovuto ad acquisti di asset in corone danesi intensificatisi dopo la decisione della Banca nazionale svizzera di lasciar rivalutare il franco svizzero contro euro, in Grecia le dichiarazioni iniziali del governo Tsipras (riassunzione dei dipendenti pubblici eventualmente licenziati, stop alle privatizzazioni che si volevano varare a partire da qualle del porto del Pireo, incremento del salario minimo e rivalutazione delle pensioni, ma nessuna rottura con la “troika” ed anzi ripresa dei colloqui per trovare un’intesa che consenta al paese di uscire dalla procedura di “bailout” riscadenziando il debito da 240 miliardi di euro contratto in questi anni con Ue, Bce e Fmi) non hanno interrotto la fuga degli investitori, che cercano quanto più rapidamente possibile di liquidare gli investimenti di asset greci.

Il che significa continui pesanti ribassi in borsa, a partire dai titoli delle maggiori banche, che in pochi giorni hanno bruciato oltre un terzo del loro valore anche per le continue, sia pur confuse, notizie di una “corsa ai depositi” che rende gli istituti stessi sempre più a corto di liquidità e sempre più bisognosi dei fondi concessi loro dalla Bce o dalla banca centrale di Atene e continui rialzi dei rendimenti dei titoli di stato di Atene. Proprio osservando la curva dei tassi greci si nota come ormai essa sia pienamente invertita, con tassi sulle brevi scadenze più elevate dei titoli e medio e lungo termine. Stamane ad esempio si registrava un tasso del 18,57% sull’emissione guida a 2 anni, del 14,85% su quella a 5 anni e dell’11,04% sul titolo decennale. Cosa significa? Nel caso danese che il mercato si attende una mossa simile a quella svizzera e l’abbandono del cambio semi-rigido con l’euro, nel caso greco che il paese rischia di cadere in recessione nei prossimi mesi e di assistere ad un nuovo default più o meno “pilotato” come già accaduto nel corso del 2012.

Sono rischi concreti e nel caso cosa succederà all’euro e all’Italia? Andiamo con ordine: il caso danese è solo l’ultimo di una serie di quel “mondo alla rovescia” dove i tassi d’interesse sono negativi di cui parla anche Alessandro Fugnoli nel suo ultimo “Il Rosso e il Nero”, ossia di soggetti (gli investitori che decidono di depositare i loro capitali in depositi espressi in corone, ma anche chi investe in Bund che offrono tassi d'interesse negativi) che accettano di immobilizzare i propri capitali per mesi o per anni anche sapendo che ne avranno indietro meno di quanti ne hanno versato in origine. Accettano dunque di pagare un “premio” in cambio di una sorta di polizza assicurativa, perché evidentemente ritengono l’euro destinato al disfacimento e non vogliono correre ulteriori rischi, specie ora che la divisa unica ha già perso un 20% contro franco svizzero e un 18% abbondante contro dollaro rispetto ai livelli visti ancora lo scorso maggio-giugno. Il rischio di ulteriore deprezzamento non è poi così astratto, ci credono anche gli analisti di Deutsche Bank e Goldman Sachs, per citare due famose case d’investimento che vedono entro il 2018 il raggiungimento e forse il superamento (al ribasso) della parità euro-dollaro.

A quel punto, con un euro pari a un dollaro o a 98-95 centesimi di dollaro, a uscire dalla valuta unica sarebbe, sorpresa, non tanto la povera e bistrattata Grecia ma la stessa Germania (ed eventualmente alcuni paesi “satelliti” come Olanda, Austria, Finlandia e forse Slovenia) che tornerebbe a un “nuovo marco” o a un “super euro” che dir si voglia rivalutando di un 15%-20% e riportandosi a 1,15-1,20 contro dollaro. Per “il resto dell’euro” a quel punto si tratterebbe di riuscire a fare quelle riforme che ancora non sono state portate a termine (in qualche caso neppure varate) così da garantirsi non solo un costo del lavoro competitivo ma anche nuove opportunità in settori strategici da quelli più maturi (alimentare, turismo, telefonia e media) a quelli più promettenti (biotech, web, infrastrutture di nuova generazione), tornando a rappresentare un mercato potenziale interessante anche per gli investitori esteri e con una maggiore omogeneità e flessibilità dei fattori lavoro e capitale, così da non tornare a ripetere gli errori che finora hanno contraddistinto “l’incompiuta” Unione europea.

Quanto alla Grecia, il suo destino si compierà nei prossimi mesi: entro luglio il paese dovrebbe rimborsare i primi 15 miliardi di euro di aiuti ed è difficile che possa semplicemente dire “no” a tutte le richieste della troika o sperare di “congelare” il proprio debito. L’unica carta che Tsipras sembra avere in mano è l’interesse sempre più evidente che hanno Russia e Cina a utilizzare la Grecia come testa di ponte per colonizzare l’economia del vecchio continente. Una carta che probabilmente è un bluff ma che il leader di Syriza e neopremier potrebbe giocare per strappare la trasformazione di parte dei 240 miliardi di euro di debiti in essere in una sorta di “bond perpetual”, operazione che potrebbe consentire di limitare i contraccolpi di una nuova recessione che i mercati giudicano ad oggi sempre più probabile (anche se non è detto che si concretizzi, avendo già il Pil greco bruciato un quarto del suo valore in questi anni).

Il vero punto interrogativo è l’eventuale default-bis sui titoli di stato : se dovesse avvenire la Grecia potrebbe dover restare sotto la tenda ad ossigeno degli aiuti internazionali ancora molti anni, con un rischio che ricadrebbe anche sull’Italia. L’ex “bel paese” ha infatti prestato, direttamente o indirettamente, 43 miliardi di euro ad Atene su 320 miliardi di debito pubblico complessivo esistenti a fine 2013 secondo l’Eurostat. Di questi meno di 6 miliardi sono stati prestati tramite Bce e Fmi (soggetti che sarebbero probabilmente al riparo da ogni ristrutturazione del debito), per gli altri 37 miliardi un eventuale taglio di un terzo del debito significherebbe una decina di miliardi di euro di perdita per l’Italia, grosso modo quanto costa ogni anno il famoso “bonus 80 euro”. Stai a vedere che per consentire ad Atene di non fare ulteriori sacrifici alla fine Matteo Renzi dovrà alzare le mani e rinunciare a rinnovare il bonus. O, peggio, potrebbe decidere di varare nuovi incrementi della pressione fiscale, che però a quel punto sarebbe difficile far passare per un atto di solidarietà tra “paesi fratelli”, visto che la Grecia, come ha fatto sapere Mario Draghi pochi giorni fa, vede attualmente una pressione fiscale di poco superiore al 33%, inferiore alla media europea e largamente inferiore alla pressione fiscale italiana.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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