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L’esempio di Giovanni Amendola a novant’anni dalla fatale aggressione

Liberale e democratico, il deputato salernitano (padre del dirigente comunista Giorgio Amendola) è uno dei martiri dell’antifascismo. Promotore e animatore della secessione aventiniana e del manifesto degli intellettuali antifascisti fu massacrato a bastonate degli squadristi in provincia di Pistoia durante un’imboscata.
A cura di Marcello Ravveduto
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Giovanni Amendola al centro, a sinistra il figlio Giorgio e a destra l'on. Bencinvenga.
Giovanni Amendola al centro, a sinistra il figlio Giorgio e a destra l'on. Bencinvenga.

È il 20 luglio 1925. A Nettuno è stato firmato il trattato tra Italia e Jugoslavia che deve regolare lo stato civile degli italiani residenti in Dalmazia e l'annessione di Fiume allo Stivale. In quello stesso giorno Giovanni Amendola, capo liberale della secessione aventiniana, è aggredito da una squadra di quindici uomini, guidata da Carlo Scorza (futuro segretario del Partito nazionale fascista), armati di bastone. Per tutta la giornata gli squadristi hanno assediato l'albergo «La Pace» di Montecatini Terme dove alloggia il deputato antifascista. Per non coinvolgere gli ospiti pensionanti viene deciso il suo trasferimento al calare delle tenebre. I fascisti gli assicurano che allontanandosi non gli sarebbe stato fatto del male, ma il conducente dell’auto, ingannandolo, cambia il percorso e lo porta nel luogo prestabilito per l’imboscata.

L’episodio è ricordato anche nel documentario di Ermanno Olmi “L’opposizione al fascismo” (1974) in cui la voce narrante recita una famosa frase recante il suo testamento spirituale: «Sappiamo di lavorare per una causa giusta, se anche noi dovessimo cadere non per questo la nostra lotta sarebbe meno giustificata e meno necessaria. Ma sappiamo anche che la causa giusta per cui lottiamo coincide con le necessità e le ragioni della vita che alla lunga prevalgono sopra qualunque calcolo artificioso dell’uomo».

Le percosse ricevute gli procureranno un ematoma all'emitorace sinistro che, nonostante l’operazione a cui si sottopone a Parigi nei primi mesi del 1926, sarà letale. Morirà a Cannes, in Provenza, all'alba del 7 aprile 1926 nella clinica Le Cassy Fleur.

Amendola è stato il primo a definire il fascismo come un «sistema totalitario» in un articolo del 12 maggio 1923 comparso sul giornale “Il Mondo”, da lui fondato insieme a Giovanni Ciraolo e Andrea Torre (con cui condivide anche il lavoro come giornalista della redazione romana del “Corriere della Sera”).

Un argomento sul quale tornerà anche nei mesi successivi (novembre 1923) scrivendo: «Veramente la caratteristica più saliente del moto fascista rimarrà, per coloro che lo studieranno in futuro, lo spirito "totalitario", il quale non consente all'avvenire di avere albe che non saranno salutate col gesto romano, come non consente al presente di nutrire anime che non siano piegate nella confessione "credo". Questa singolare "guerra di religione" che da oltre un anno imperversa in Italia non vi offre una fede […] ma in compenso vi nega il diritto di avere una coscienza – la vostra e non l'altrui – e vi preclude con una plumbea ipoteca l'avvenire».

In verità la battaglia amendoliana è avversa sia alle istanze rivoluzionarie socialiste sia al sovversivismo fascista, considerati nemici identici dello stato liberale e del regime parlamentare. Ma con lo scemare del biennio rosso (1919 – 1920), rimane in campo solamente l'illegalismo squadrista. In una prima fase Amendola crede sia ancora possibile far rientrare nel gioco statutario il fascismo, lasciandosi irretire dalle dichiarazioni di legalitarismo che Mussolini proclama dopo ogni azione di violenza fisica. Successivamente, a partire dal dibattito sulla riforma elettorale (legge Acerbo), la sua posizione si radicalizza diventando agli occhi dei fascisti uno dei loro massimi avversari.

Lo dimostrano il "fermo" nella sua abitazione, cui è sottoposto a Salerno il 15 dicembre 1923, in occasione di una visita del re nella città, e l'aggressione subita a Roma, in via Francesco Crispi, il 26 dello stesso mese, alla quale segue la “fascistizzazione" delle amministrazioni locali nel Salernitano fino allora amendoliane. Anche per questo elabora un programma di democrazia radicale, imperniato sul decentramento amministrativo e sulla creazione di una Corte costituzionale, con il quale intende rivolgersi ai ceti medi, soprattutto meridionali, per offrire un’altra scelta tra fascismo e comunismo. Ed è grazie alla rete elettorale tessuta tra i notabili delle province meridionali se riesce a superare lo scoglio maggioritario della legge Acerbo tornando ad occupare, per l’ultima volta, lo scranno parlamentare.

L’accelerazione impressa dal delitto Matteotti lo induce, insieme con le altre opposizioni (eccettuata la comunista), a ritirarsi dalla Camera e a dar vita al cosiddetto "Aventino", del quale è l'animatore politico. Scrive sul «Mondo» (giugno 1924): «Quanto alle opposizioni, è chiaro che in siffatte condizioni, esse non hanno nulla da fare in un Parlamento che manca della sua fondamentale ragione di vita. […] Quando il Parlamento ha fuori di sé la milizia e l'illegalismo, esso è soltanto una burla».

La cosiddetta «secessione» è immaginata come alternativa legalitaria contrapposta al governo e alla Camera dominati dai fascisti e, quindi, considerati illegali. La sua linea di opposizione non violenta, sostenuta anche dal massimo esponente del Partito socialista, Filippo Turati, è dettata dall’ingenuo confidare che, dinnanzi alle responsabilità del fascismo nella morte di Matteotti, il re si decida a nominare un nuovo governo. È il principio di legalità che lo porta ad opporsi sia ai vari tentativi, caldeggiati da repubblicani e garibaldini della "Italia Libera", di insurrezione armata, sia ad alleare l'opposizione aventiniana a quella comunista.

Nel periodo compreso fra il delitto Matteotti e le proclamazione della dittatura si sforza di suscitare nel paese un vasto movimento di opinione contro il partito fascista e il governo, accusati di correità nella catena dei "delitti di Stato", di cui quello Matteotti è il più clamoroso. L’intransigenza degli aventiniani riesce a mettere in difficoltà Mussolini tra la seconda metà di novembre e la fine di dicembre quando su “Il Mondo” (non per volontà di Amendola) spunta il memoriale di Cesare Rossi (27 dicembre 1924) le cui rivelazioni sembrano provocare la caduta del Presidente del Consiglio e dei suoi accoliti; invece la pubblicazione fa precipitare la situazione spingendo Mussolini ad enunciare alla Camera il discorso del 3 gennaio 1925 con cui inizia la tirannia.

L’ultimo sussulto dell’Aventino amendoliano è il “Manifesto degli intellettuali antifascisti”. Il 20 aprile 1925 il deputato scrive al senatore Benedetto Croce: «Caro Croce, avete letto il manifesto fascista agli intellettuali stranieri? … oggi ho incontrato varie persone le quali pensano che, dopo l'indirizzo fascista, noi abbiamo il diritto di parlare e il dovere di rispondere. Che ne pensate voi? Sareste disposto a firmare un documento di risposta che potesse avere la vostra approvazione? E, in caso, vi sentireste di scriverlo voi?". La replica del filosofo liberale è breve e incisiva: «Mio caro Amendola… l'idea mi pare opportuna. Abbozzerò oggi stesso una risposta, che a mio parere, dovrebbe essere breve, per non far dell'accademia e non annoiare la gente».

Nasce, così, ad opera di un salernitano e di un napoletano (d’adozione) il testo di quello che passerà alla storia come “Antimanifesto” firmato da decine di intellettuali antifascisti tra cui: Luigi Albertini, Sibilla Aleramo, Corrado Alvaro, Giovanni Amendola, Vincenzo Arangio-Ruiz, Roberto Bracco, Piero Calamandrei, Benedetto Croce, Cesare De Lollis, Luigi Einaudi, Giustino Fortunato, Arturo Carlo Jemolo, Arturo Labriola, Attilio Momigliano, Rodolfo Mondolfo, Eugenio Montale, Gaetano Mosca, Gaetano Salvemini, Matilde Serao, Adriano Tilgher, Umberto Zanotti Bianco.

Rispondendo agli intellettuali fascisti si legge: «Nella sostanza, quella scrittura è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocini; … Ma il maltrattamento delle dottrine e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell'abuso che si fa della parola "religione"; perché, a senso dei signori intellettuali fascisti, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte la quale, le sta sopra e alla quale dovrà pur acconciarsi; e ne recano a prova l'odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani. Chiamare contrasto di religione l'odio e il rancore che si accendono contro un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere di italiani e li ingiuria stranieri, e in quell'atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppressore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono propri di altri conflitti… è cosa che suona, a dir vero, come un'assai lugubre facezia».

E ancora: «In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto; e, d'altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all'autorità e di demagogismo, di proclamata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamenti alla Chiesa cattolica, di aborrimenti della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo».

Il sacrificio di Giovanni Amendola non va dimenticato e oggi, più di ieri, possiamo concludere con le stesse parole con cui si chiude il manifesto antifascista: «E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l'Italia doveva percorrere per ringiovanire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile».

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