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Non chiamiamoli più “nativi digitali” e proviamo a salvarli

Quello che sta accadendo oggi è, in buona parte, colpa nostra. Serve, è indispensabile e urgente fare qualcosa di più: tenere i piccoli fuori da contesti digitali che non sono progettati, disegnati, sviluppati e gestiti a misura di bambino e adolescente.
A cura di Guido Scorza
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Negli stessi giorni – quelli che ci stiamo lasciando alle spalle – le cronache hanno raccontato dell’ennesimo femminicidio di un ragazzino che ha ucciso una ragazzina rea di averlo lasciato, di un’altra ragazzina stuprata da tre compagni di scuola che poi non paghi della prima violenza, l’hanno violentata una seconda volta pubblicando sui social il video dello stupro – una storia vecchia di qualche anno divenuta solo ora di dominio pubblico – e di un ragazzino finito al pronto soccorso in preda a una crisi da dipendenza da smartphone, dopo che i genitori glielo avevano tolto.

Tanto è bastato – come accade ciclicamente dopo ogni tragedia o disgrazia che approdi agli onori della cronaca – per riaccendere il dibattito sul rapporto tra minori, smartphone e social network, un dibattito che, tra qualche giorno, tornerà a esser sepolto sotto la cenere come se, in assenza, di morti, stupri, violenze e ricoveri in ospedale per dipendenza non si trattasse di una questione abbastanza seria.

Ma oggi, a ridosso, appunto, delle tragedie finite sotto i riflettori, i più sembrano d’accordo: gli smartphone e i social network generano dipendenze pericolose specie per i più piccoli e questi ultimi, dipendenze a parte, dovrebbero starne fuori perché non sono pronti a confrontarsi con contenuti e dinamiche, semplicemente, inadatti alla loro età.

Abbiamo sbagliato tutti

Si può naturalmente discutere di quale sia l’età giusta per lasciarli entrare nei social, quale quella per consegnargli uno smartphone, quali gli usi da consentire a un bambino e quali quelli da consentire a un adolescente e, magari, quale sia il tempo massimo ideale che dovrebbero trascorrere davanti ai piccoli schermi. E però tutti sembrano d’accordo, anzi, tutti sembriamo d’accordo che le cose come sono andate sin qui non vanno per niente bene e sono direttamente o indirettamente, responsabili o, almeno, corresponsabili di una condizione – quella dei bambini e degli adolescenti nella dimensione digitale – semplicemente divenuta insostenibile.

E con chatbot e nuovi servizi basati sull’AI che, ormai, spopolano nelle nostre vite rischia di andare sempre peggio. Insomma, girarci attorno è da ipocriti: abbiamo sbagliato, abbiamo sbagliato tutti – o, quasi tutti – da adulti, da Istituzioni, da decisori pubblici, da insegnanti e, soprattutto, da genitori. Ora che facciamo? Aspettiamo la prossima tragedia o proviamo a evitarla? E nel secondo caso, cosa dovremmo fare?

Io credo si debba, innanzitutto, chiedere scusa ai più piccoli perché non siamo stati capaci di consegnarli il digitale che avremmo dovuto, un digitale capace di offrire loro più opportunità di quelle che abbiamo avuto noi, al riparo da rischi insostenibili. Poi dobbiamo smettere immediatamente di utilizzare in decine di contesti diversi, dai dibattiti pubblici ai media, l’espressione “nativi digitali”.

Perché è pericoloso il termine "nativi digitali"

È un’espressione sbagliata, pericolosa, equivoca. I nativi digitali non esistono e questa espressione suggerisce ai genitori di non aver nulla
da insegnare ai loro figli in relazione alla dimensione digitale – perché, pensano, se son nati digitali ne sanno più di noi – e rafforza la convinzione dei più giovani di non aver nulla da imparare dai più grandi perché, appunto, nati digitali.

Accade così che mentre insegniamo ai nostri figli a non salire sul motorino fino a quando non hanno l’età giusta e a mettere il casco poi, non facciamo altrettanto con smartphone e social network. Anzi, forse, peggio perché talvolta lo smartphone glielo regaliamo noi quando sono ancora piccolissimi per non farli sentire diversi dai loro compagni di classe, per stare più tranquilli quando sono in giro, perché così hanno qualcosa da fare mentre noi siamo davanti alla televisione o quando siamo tutti insieme – si fa per dire – fuori a cena.

E altrettanto facciamo con i social network, spesso siamo noi a accompagnarli, in un modo o nell’altro, dove non dovrebbero stare o, comunque, non ci meravigliamo se a dieci, undici o dodici anni usano servizi che i fornitori dichiarano riservati agli ultratredicenni.

Smettiamo, quindi, di dire che sono nativi digitali e trattiamoli per quello che sono, bambini o adolescenti che hanno bisogno di noi anche nella dimensione digitale e, anzi, forse, nella dimensione digitale più che in quella fisica.

Qui, però, sorge un problema ed è un problema enorme che non c’è Governo, che a prescindere dal colore politico, sin qui abbia voluto o saputo affrontare per davvero: l’ultimo rapporto annuale ISTAT 2025, dice che in Italia, appena il 45.8% della popolazione possiede le conoscenze digitali di base necessarie a vivere nella società degli algoritmi. E gli altri, più di trenta milioni di persone?

Manca un'educazione digitale

Se gli adulti sono analfabeti digitali come possono educare i loro figli a vivere nel digitale? La risposta è tanto semplice quanto drammatica: non possono e, infatti, non lo fanno. Incredibile ma vero, il Paese che nel secondo dopo guerra dichiarò guerra e sconfisse l’analfabetismo funzionale, sembra non capire che se non facciamo altrettanto contro l’analfabetismo digitale, in una società sempre più digitale, andrà sempre peggio.

Eppure è un dato di fatto che stiamo investendo di più – per quanto sempre poco – nell’addestrare gli algoritmi a conoscere le persone che nell’educare le persone a conoscere gli algoritmi. Se continuiamo così, inutile lamentarci poi, se i nostri figli continueranno a confondere ChatGPT e i suoi concorrenti con adulti più saggi di tutti gli altri, genitori inclusi e a pendere letteralmente dalle loro labbra digitali o a trasformare chatbot di ogni genere in amici, fidanzate e fidanzati o psicoanalisti.

Troppo piccoli per salire sulla giostra digitale

Questo è quello che sta accadendo oggi ed è, in buona parte, colpa nostra. Ma né le scuse ai più giovani, né la cancellazione dal nostro vocabolario dell’espressione “nativi digitali”, né la più determinata e convinta dichiarazione di guerra all’analfabetismo digitale dilagante, da soli possono risolvere il problema. Serve, è indispensabile e urgente fare qualcosa di più: tenere i piccoli fuori da contesti digitali che non sono progettati, disegnati, sviluppati e gestiti a misura di bambino e adolescente.

Perché se un giostraio scrive all’ingresso della sua giostra che chi è più basso di una certa altezza non può salire è perché se lo lasciasse salire sarebbe pericoloso e, quindi, proprio per evitare il pericolo, misura l’altezza di tutti i bambini all’ingresso. Online, però, questa regola elementare di buon senso non funziona. Le piattaforme, prima indicano un’età minima per accedere e, poi, mentre utenti più piccoli,
più giovani, talvolta piccolissimi si presentano alla porta, si limitano a chiedere loro di confermare di avere l’età minima necessaria, cosa che, naturalmente, stuoli di ragazzini, da anni, fanno entusiasticamente pur di vivere un’esperienza da adulti.

Va davvero bene così? Davvero vogliamo continuare a rinviare il giorno in cui imporre ai giostrai di misurare i bambini all’ingresso? Davvero l’innegabile complessità tecnologica di verificare l’età di una persona senza chiederle conto della sua identità, può rappresentare, nel 2025, in un’era nella quale il tecnologicamente impossibile non esiste più, un alibi per rinviare l’adozione di una regola semplice e elementare che imponga a chi vuole, legittimamente, fare business online, di non farlo sulla pelle dei più piccoli e di adottare ogni misura idonea a scongiurare il rischio che un bambino di otto, nove, dieci, undici o dodici anni, si ritrovi in un contesto riservato a chi ne ha almeno tredici?

La mia personalissima risposta è no. In qualsiasi momento, da domani, adottassimo questo regola, a livello europeo o nazionale, sarà troppo tardi e, prima o poi, dovremo spiegare ai nostri figli divenuti adulti perché siamo stati così lenti, così deboli, così incoscienti da lasciarli salire sui novelli motorini digitali piccolissimi e senza casco. E non sarà facile.

Ma indietro non si torna e, quindi, forse meglio farlo oggi, prima di doverne tornare a discutere davanti all’ennesima tragedia, davanti all’ennesimo dramma, davanti all’ennesimo incidente che avremmo potuto evitare.

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