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Il lavoro dei kid influencer: cosa fanno i bambini sfruttati dai genitori sui social

Il post di Pixie Curtis è solo l’ultimo esempio di minori che creano contenuti sponsorizzati sui social, il fenomeno sta crescendo e tra i rischi c’è la mercificazione, la privacy negata e lo sviluppo di una cultura orientata a vendere i loro prodotti e servizi.
A cura di Elisabetta Rosso
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Partiamo da Pixie Curtis: ha 11 anni, viaggia su limousine, magia ostriche, e calpesta tappeti rossi. Il suo ultimo post mostra la ragazzina che entra in una concessionaria e compra per la famiglia una Range Rover da 250.000 dollari. Il suo profilo da 144.000 follower è una vetrina di spot pubblicitari e collaborazioni con brand, il lusso smodato è la patina che caratterizza ogni suo post. E infatti nonostante la giovane età è già a capo di due aziende, una di giocattoli e una di cosmetici. Dietro Pixie c'è la madre, la regina delle pubbliche relazioni Roxy Jacenko, e il padre, Oliver Curtis, ex banchiere condannato nel 2016 per insider trading. Lei non è un'enfant prodige, ma una kid influencer. 

Un kid influencer è minore che sulle piattaforme di social media crea contenuti spesso sponsorizzati. Condividono hobby, passioni, e in mezzo commercializzano anche i prodotti attraverso partnership a pagamento. Non è una novità, i bambini da tempo sono entrati nel mondo del marketing, basta pensare a Shirley Temple e al suo spot per la Royal Crown Cola nel 1944. Eppure i social hanno cambiato tutto. Negli ultimi anni sono apparsi sempre più kid influencer, come ha spiegato la dottoressa Catherine Archer della Edith Cowan University in un articolo pubblicato su M/C Journal. "Sono spesso figli di celebrità che sviluppano collaborazioni redditizie con i marchi per massimizzare l'impegno e il ‘potere di vendita. Il nostro studio ha evidenziato le principali preoccupazioni relative a questioni di privacy, sfruttamento e marketing di genere e ‘furtivo' di giocattoli per bambini attraverso ‘pubbliredazionali'".

Archer ha studiato anche i post di Pixie Curtis e di suo fratello di 8 anni, Hunter Curtis, gestiti dalla madre, Roxy Jacenko, "la ragazzina ha aperto il suo negozio di giocattoli online Pixie's Pix durante il Covid, quando le vendite di giocattoli sono aumentate a livello globale. Ciò è avvenuto dopo il successo iniziale nella vendita di fiocchi per capelli attraverso Pixie's Bows" spiegano. Tra i rischi legati al fenomeno c'è la mancanza di privacy online per i kid influencer, che pubblicizzano online molti aspetti della loro vita, la mercificazione dei bambini e l'abilitazione di una cultura orientata a vendere i loro prodotti e servizi.

Il kid influencer è un vero lavoro

Non è un segreto la “mamma influencer” e il "kid influencer" (come ha spiegato lo studio Managing Children’s Online Identities dell'Università del Michigan) sono lavori contrattualizzati dalle agenzie di comunicazione, in base ai follower vengono selezionati in diverse categorie. Chi ne ha meno di 50.000 di solito ottiene prodotti gratuiti o sconti, se superi la soglia arrivano le collaborazioni a pagamento, e poi la parcella si alza in modo direttamente proporzionale ai follower accumulati.

Il ruolo delle agenzie è essere mediatori tra gli influencer e i marchi, sono stati anche creati programmi studiati ad hoc come Kidfluencer di Batterypop, per fornire un viaggio guidato nella vita degli influencer per i bambini. La domanda di agenti specializzati per i kid influencer è cresciuta perché sempre più aziende hanno deciso di lavorare solo con minori.

Come proteggere i minori dallo sfruttamento

Il fenomeno cresce in fretta e la legge non sta al passo. Manca un quadro normativo dedicato ai kid influencer per limitare lo sfruttamento di minori sui social. Al momento solo il governo francese ha cercato di regolamentare il lavoro dei bambini sui social media. Secondo la legge, i minori di 16 anni possono lavorare solo con un orario limitato, e i loro guadagni devono essere salvaguardati in un conto separato a cui potranno accedere dopo che hanno compiuto 16 anni.

Il parlamento francese ha anche approvato il disegno di legge proposto dal deputato Bruno Studer per garantire ai minori il diritto alla loro immagine. Parte con la volontà di sensibilizzare ma l’obbiettivo finale è togliere ai genitori il diritto all’immagine dei propri figli. Perché all’apparenza sono solo foto e video, ma come ogni storia di successo dietro i profili che funzionano c’è una strategia di industria fatta di programmazione dei contenuti, sponsorizzazioni, e massimizzazione dei profitti.

Questa consapevolezza sta trovando un terreno fertile anche in Italia, la proposta di legge francese potrebbe diventare un buon precedente per adottare misure più stringenti sui social. Già a novembre 2022, l’Autorità garante per i diritti dell’infanzia ha sottoposto la questione al governo. Una legge sul tema potrebbe chiudere i rubinetti preziosi di molte mamme influencer italiane.

I rischi per i kid influencer

Il rapporto del Children’s Commissioner for England del 2018 ha stimato che “un bambino appaia in media in 1.300 fotografie pubblicate online prima dei 13 anni, sui propri account, su quelli dei genitori o dei familiari”. Secondo l’Observatoire de la Parentalité & de l’Éducation numérique nelle società occidentali oltre il 40% dei genitori pubblica foto o video dei propri figli. Tutto questo ovviamente avviene senza il consenso dei figli, il motivo è banale, non hanno l'età per darlo. Come spiega Save the Children le foto o i video sui social sono “tracce digitali, su cui i bambini non hanno controllo, ma che vanno a sedimentarsi in rete diventando parte dell’identità digitale dei ragazzi”.

Dal punto di vista psicologico, invece, il rischio è di sviluppare un Falso Sé. Essendo esposti sin dall'infanzia sui social i ragazzi potrebbero sviluppare delle barriere difensive che compromettono l’essere persone autentiche. D’altronde non possono imparare la differenza tra pubblico e privato, quando tutto viene postato sui social.

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