Don Alberto Ravagnani, il prete dei social: “A 17 anni la mia conversione. Non sono un narciso”

Don Alberto Ravagnani risponde alla nostra telefonata da Roma. Schiva qualche saluto e poi si apparta in un un posto dove può parlare con noi. È all’Auditorium Conciliazione dove si sta tenendo uno dei primi incontri del Giubileo dei missionari digitali e degli influencer cattolici. Un incontro discretamente atipico per un Giubileo.
Classe 1993, origini brianzole, don Alberto Ravagnani è il vescovo di una diocesi digitale. Ha 250.000 follower su Instagram, 160.000 iscritti al suo canale YouTube e conta già parecchie ospitate su vari podcast, a partire da Muschio Selvaggio. Anche se poi il rapporto con Fedez non è esattamente andato liscio. Tutto, come ormai per molti creator, è cominciato con il Covid.
Nei suoi contenuti usa tutti i linguaggi dei social. Espressioni teatrali per le anteprime, titoli in caps lock, miniature con profilo in evidenza. Ha anche iniziato da qualche settimana una serie su YouTube in cui intervista creator del mondo fitness. Ha un media kit per le interviste, fatto anche bene. Don Alberto è il più seguito tra i sacerdoti che negli ultimi anni hanno deciso deciso di avventurarsi sulla via dell’algoritmo.
Cosa succede al Giubileo dei missionari digitali?
Sono una serie di incontri per radunare i missionari digitali da tutte le parti del mondo.
È un’approvazione generale da parte della Chiesa? Almeno in Italia, tutti i preti che sono attivi sui social lo hanno fatto in modo indipendente.
Sì. In qualche modo è una forma di approvazione. Prima io ero quello che aveva il pallino dei social, ora invece c’è il Dicastero della Comunicazione che presiede a queste attività dall’alto.
Nascerà un ordine dei missionari digitali?
Non credo in questi termini ma è un tema. La chiesa è divisa in diocesi e parrocchie ma i social superano i territori. A chi devono rendere conto per quello che dico in questi canali?
Quali sono contenuti sui social che hanno funzionato di più?
Se penso alle interazioni con il pubblico, le cose che funzionano meglio sono le collaborazioni con gli influencer. Ho iniziato una serie dedicata alla palestra e ho incontrato tante persone che che lavorano sui social in questo mondo ma ho lavorato anche con Emalloru, Pietro Morello o Fedez e Luis quando facevano insieme Muschio Selvaggio.
Immagino che gli utenti ti scrivano spesso, ragazzi e non.
Sì, succede molto.
Cosa ti chiedono?
La maggior parte delle volte sono domande sulla morale che riguardano il sesso. A volte invece sono questioni più generiche sulla fede. Spesso i ragazzi mi scrivono perché hanno avuto un percorso di fede da giovani, anche solo con il catechismo, ma poi l’hanno sperso. In genere poi ci sono tante domande sulla solitudine.
Dal Covid molti servizi si sono digitalizzati. Arriverà anche la confessione via streaming?
No, ecco. I sacramenti si devono ancora amministrare in presenza. Al massimo si possono fare incontri o momenti di riflessione in streaming ma vedo che i giovani non sono molto convinti. Sono cose che funzionano per un pubblico più adulto.
Quando hai deciso che saresti diventato un prete?
Il primi pensieri sono iniziati a 17 anni. Poi ho fatto i due anni di discernimento e poi sono entrato in seminario.
Cos’è successo a 17 anni?
Una confessione. Io non vengo da una famiglia religiosa, ho avuto un’esperienza forte di Dio durante una confessione e poi nei giorni dopo ho sentito come se le cose dentro di me iniziassero a cambiare. Ho preso consapevolezza delle mie ferite.
Mai avuto dubbi?
Durante il percorso per diventare sarcedote no. Ora non lo so, è un periodo complesso. Vivo a Milano, incontro tante persone che credono in modo diverso. Mi sto rendendo conto che la Chiesa non è solo la comunità dei battezzati. C’è molto di più. Sto iniziando a capire che spesso il mio ruolo è un impedimento a un incontro vero con gli altri.
I social, ormai lo sappiamo, possono essere anche pieni di commenti negativi.
Si, certo. Oltre a quelli irripetibili, mi infastidiscono molto quelli che arrivano da una parte di fedeli che è contraria al mio modo di evangelizzare. Mi dicono che metto me stesso davanti a Gesù. Mi accusano di essere un narciso. Non lo sono.
Prossimo progetto sui social?
Il mio podcast.
Hai già il nome?
Facile: il DonCast.