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Perché i batteri che mangiano la plastica non sono la soluzione ai rifiuti in mare

Lo dimostra un team di ricerca olandese che in laboratorio ha riprodotto quanto accade in mare a opera di una specie batterica.
A cura di Valeria Aiello
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L’inquinamento da plastica in mare ha raggiunto proporzioni allarmanti. Ogni anno, più di 8 milioni di tonnellate di polimeri sintetici finiscono negli oceani. Ma mentre una certa quantità affonda nelle profondità marine o torna a riva, oppure forma gigantesche isole di rifiuti galleggianti, un’altra importante quantità scompare inspiegabilmente. Il destino di tutta quella plastica mancante è da tempo avvolta dal mistero, ma alcuni ricercatori sospettano che alcuni microbi siano in parte responsabili della sua sparizione. Esperimenti di laboratorio hanno infatti recentemente dimostrato che un batterio marino, chiamato Rhodococcus ruber, può degradare e digerire lentamente un tipo di plastica, il polietilene (PE).

Utilizzato in gran parte degli imballaggi, nei contenitori di vario tipo e in borse e buste di plastica, il polietilene (PE) è il più comune fra le materie plastiche prodotte al mondo. Pur non essendo ancora chiaro se sia R. ruber a mangiare questi rifiuti in natura, un nuovo studio ha confermato che è in grado di farlo. Pubblicato sul Marine Pollution Bulletin, l’esperimento di laboratorio ha dimostrato che i batteri di questa specie “digeriscono effettivamente la plastica in CO2 e altre molecole” spiega la microbiologa marina Maaike Goudriann, studentessa di dottorato presso il Royal Netherlands Institute for Sea Research di Texer, in Olanda, e autrice principale dello studio – . Era già noto che il batterio Rhodococcus ruber può formare un cosiddetto biofilm sulla plastica in natura. Ed era già stato misurato che la plastica scompare sotto quel biofilm. Ma ora abbiamo davvero dimostrato che questi batteri digeriscono la plastica”.

Lo studio dei ricercatori olandesi

L'esperimento di laboratorio condotto dalla microbiologa marina Maaike Goudriaan. Credit: Maaike Goudriaan, NIOZ.
L'esperimento di laboratorio condotto dalla microbiologa marina Maaike Goudriaan. Credit: Maaike Goudriaan, NIOZ.

Per riprodurre quanto accade in mare, Goudriaan e i suoi colleghi hanno esposto i loro campioni di plastica alla luce UV e li hanno collocati in acqua di mare artificiale. “Il trattamento con luce UV era necessario perché sappiamo già che la luce solare scompone parte della plastica in piccoli pezzi per i batteri – precisa il team di ricerca che ha poi somministrato la plastica così pretrattata ai microrganismi. Misurando quindi i livelli di un isotopo del carbonio (C-13) rilasciato dalla scomposizione della plastica in CO2, gli autori dello studio hanno calcolato che i batteri possono degradare circa l’1% della plastica in un anno.

Un tasso che, per quanto sottostimato, i ricercatori ritengono troppo lento per risolvere il problema dell’inquinamento da plastica in mare, pur indicando dove potrebbe essere finita parte della plastica mancante. La luce solare potrebbe quindi aver degradato una quantità di tutta la plastica galleggiante che è finita negli oceani dagli Anni 50 e i microbi potrebbero aver digerito una parte di questi avanzi. “Potrebbe essere un pezzo del puzzle che risponde alla domanda su dove finisca tutta la plastica che scompare negli oceani – ha concluso Goudriaan – . La digestione microbica non è dunque la soluzione dell’enorme problema della plastica, ma fornisce parte della spiegazione”.

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