93 CONDIVISIONI
video suggerito
video suggerito
Covid 19

La variante Omicron nata in un paziente con l’AIDS: lo suggerisce uno studio

In un paziente con Covid e AIDS il coronavirus SARS-CoV-2 ha accumulato molteplici mutazioni nell’arco di sei mesi, alcune osservate nella variante Omicron.
A cura di Andrea Centini
93 CONDIVISIONI
Particelle virali del coronavirus SARS-CoV-2 su cellule umane. Credit: NIAID
Particelle virali del coronavirus SARS-CoV-2 su cellule umane. Credit: NIAID
Attiva le notifiche per ricevere gli aggiornamenti su

Quando alla fine di novembre 2021 gli scienziati dell'Istituto nazionale per le malattie trasmissibili (NCID) del Sudafrica hanno annunciato di aver isolato la variante Omicron (B.1.1.529) “super mutata” del coronavirus SARS-CoV-2, molti esperti non si sono stupiti né della sua emersione né dell'origine geografica. Le ragioni principali sono due: da una parte la bassissima copertura vaccinale del Paese (all'epoca attorno al 7 percento, ora balzata al 27,4 percento), dall'altra l'estrema diffusione della sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS). Come suggerisce il nome stesso, la malattia provocata dal virus dell'HIV abbatte le difese immunitarie, pertanto i pazienti con l'AIDS che vengono contagiati dal patogeno pandemico possono sviluppare forme croniche della COVID-19, col virus che non viene eliminato dall'organismo per mesi. È in questo contesto che si può accumulare un inconsueto – e abnorme – numero di mutazioni, proprio come quelle osservate nella variante Omicron, che ne manifesta oltre 30 sulla proteina S o Spike. In parole semplici, si è ipotizzato che la nuova variante fosse originata in un paziente Covid con HIV, nel quale l'infezione ha "covato" a lungo fino al ritorno nella comunità. Ora un nuovo studio sembra confermare quella che era solo una tra le plausibili teorie (alcuni ritengono che la variante Omicron possa essere emersa nei topi).

Gli autori della ricerca, un team composto da esperti dell'Africa Health Research Institute, dell'Università di KwaZulu-Natal e di altri istituti, si sono concentrati su un peculiare ceppo del SARS-CoV-2, che si è evoluto per sei mesi da una forma molto simile al virus ancestrale – quello “selvatico” di Wuhan – in un paziente sudafricano con la fase avanzata dell'AIDS. Questa persona è stata contagiata dal patogeno pandemico prima che emergessero le varianti Beta (la prima sudafricana) e Delta (la seconda indiana), entrambe catalogate come varianti di preoccupazione (VOC) dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Analizzando l'evoluzione del virus nel paziente, i ricercatori hanno rilevato che nel corso dei sei mesi ha sviluppato molteplici mutazioni osservate sia nella variante Omicron che in altri lignaggi problematici. Sottoposto a test di laboratorio con l'auto-plasma e col plasma ottenuto da pazienti convalescenti contagiati da altri ceppi (originale, Beta e Delta), i ricercatori hanno inoltre osservato una debole neutralizzazione col plasma dello stesso paziente e “un'ampia fuga di neutralizzazione provocata dall'infezione da Delta”. Tale capacità di fuga immunitaria è risultata minore con la variante Beta.

Gli scienziati guidati dai professori Tulio de Oliveira e Alex Sigal hanno anche determinato che questo virus si è evoluto a tal punto da mostrare una “fuga sostanziale ma incompleta” al Comirnaty, il vaccino anti Covid a RNA messaggero (mRNA) messo a punto in collaborazione tra il colosso farmaceutico americano Pfizer e la società di biotecnologie tedesca BioNTech. Tutti questi dati sono coerenti con la nozione che il coronavirus “SARS-CoV-2 si evolve nei singoli ospiti immunocompromessi, compresi quelli con malattia da HIV avanzata”, scrivono gli autori nell'abstract studio. In questo scenario il patogeno può evolvere in varianti “super mutate” con significative capacità di fuga immunitaria. È esattamente ciò che viene osservato con la variante Omicron, in grado di "bucare" le difese immunitarie scatenate da una precedente infezione naturale e dalla vaccinazione, sebbene quest'ultima, soprattutto se potenziata con la terza dose (booster o richiamo), è in grado comunque di proteggere in modo significativo dalla forma grave della COVID-19. I dettagli della ricerca “SARS-CoV-2 prolonged infection during advanced HIV disease evolves extensive immune escape” sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica Cell Host & Microbe.

93 CONDIVISIONI
32805 contenuti su questa storia
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views