Ma che fine ha fatto il Green Deal europeo?: il nuovo episodio di “Nel Caso Te Lo Fossi Perso”

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Alcuni anni fa il Green Deal era il protagonista per eccellenza delle politiche europee. Era uno degli argomenti principali del dibattito politico, una priorità dell’agenda di Bruxelles. Non so se ve ne siete accorti, ma le cose sono un po’ cambiate. E recentemente questo piano ambizioso di contrasto al cambiamento climatico è stato puntellato da una serie di revisioni a ribasso. È stato annacquato in altre parole. Perché è successo questo? Beh, è una questione politica: la maggioranza in Europa si è spostata più a destra e la lotta al climate change non solo non è più un’urgenza, ma deve essere rivista in modo da non pestare troppo i piedi alle aziende e ai vari interessi economici in campo. Tutto questo mentre gli effetti dell’inquinamento sul clima si fanno sempre più evidenti sul nostro continente, tra le temperature torride, le alluvioni e tutti gli altri eventi estremi.
Il Green Deal era diventato il simbolo della prima Commissione di Ursula von der Leyen, per poi venire decisamente annacquato nel suo secondo mandato. Partiamo dalle basi: il Green Deal europeo contiene tutte le riforme che l’Unione ha lanciato per contrastare il cambiamento climatico. L’obiettivo è molto concreto: diventare entro il 2050 il primo continente a impatto climatico zero. Zero emissioni inquinanti: non ci dovrà essere alcun gap tra quelle generate e quelle riassorbite. Chiaramente questo comporta una serie di cambiamenti e un profondo adattamento per le attività economiche e industriali: ragion per cui si parla di transizioni e si procede per gradi, un passo alla volta.
Il problema è che ultimamente c’è stato un chiaro rallentamento. Alcuni degli obiettivi di medio termine sono stati rivisti, alcune misure sono state depotenziate, dei target rinviati. E tutto questo per pressione delle forze politiche di destra. Questo retrofront sul clima è cominciato quando il PPE – il Partito popolare europeo, a cui appartiene Ursula von der Leyen – ha deciso di votare con la destra, invece che con le altre forze europeiste, su alcune misure.
Manfred Weber, che è il capogruppo dei Popolari, sostiene che questo riposizionamento sia parte di una strategia di contrasto alla destra. Cioè, abbracciando alcune posizioni di critica al Green Deal, intercettando così le lamentele di alcuni settori importanti come quello industriale o dell’agricoltura, si impedirebbe alla destra di farle dei suoi cavalli di battaglia, costruendo poi su questa propaganda anti Green Deal il suo consenso. Ma è chiaro che anche per il PPE è una questione di consensi.
C’è poi chi potrebbe argomentare che diventare la destra più a destra, proprio per contrastare l’estrema destra, beh non sia proprio la migliore delle strategie. La sinistra ha accusato von der Leyen di aver ucciso il Green Deal. Qualche tempo fa è uscito un articolo di Politico, in cui si sosteneva che la presidente della Commissione europea stesse cercando di salvare almeno le basi del piano sul clima, facendo delle concessioni sui punti che ritiene sacrificabili. Insomma, una posizione di pragmatismo per far fronte a una maggioranza politica che non è più quella di cinque o sei anni fa.
L’obiettivo finale, però, sempre secondo questo articolo di Politico, non sarebbe in discussione e resterebbe sempre la neutralità carbonica nel 2050. Però, se già all’inizio del mandato le concessioni sono così tante, le preoccupazioni degli ambientalisti hanno ragione d’essere.
Verso inizio luglio Bruxelles ha fissato il cosiddetto target intermedio. Cioè ha detto di quanto dovrà ridurre le emissioni entro il 2040, quindi dieci anni prima della neutralità climatica. Questo obiettivo è stato fissato al 90% ed è stato oggetto di una lunga e accesa battaglia politica. Alla fine, sempre per tendere una mano alla destra, è stato stabilito che questo target dovrà sì essere raggiunto, ma con una certa flessibilità.
In particolare è stato previsto un sconto sugli obblighi, fino al 3%, per chi avvia progetti in Paesi terzi, in via di sviluppo, per la riduzione delle emissioni di CO2. Ad esempio, chi finanzia dei bus elettrici o il fotovoltaico in un Paese africano o del Sudest asiatico, per capirci. Sono i cosiddetti crediti di compensazione internazionali. Una cosa su cui in realtà non si era detto d’accordo nemmeno il gruppo di consulenti scientifici della Commissione, per cui gli obiettivi nazionali dovrebbero rimanere ambiziosi al di là delle attività internazionali, o comunque non possono essere frutto di un compromesso con queste.
La flessibilità, però, era necessaria per raggiungere un accordo. E infatti, oltre a questo sconto, sono state concesse altre forme di elasticità sugli obiettivi. Ad esempio a settori particolarmente impattati da queste misure, come quello dell’agricoltura, verranno concessi dei veri e propri sforamenti, che dovranno essere controbilanciati da altri settori.
Comunque, questo nuovo target si aggiunge a quello del 55% già approvato e fissato per il 2030. Annunciando ufficialmente la cifra del 90% von der Leyen ha parlato di un percorso pragmatico e realistico. Ma al Parlamento europeo la questione continua a essere incredibilmente divisiva. La destra continua a parlare di follia ecologista che metterà in ginocchio le industrie e l’economia, mentre a sinistra le forze ambientaliste sostengono che con così tanta flessibilità di fatto ci si stia arrendendo nella lotta al cambiamento climatico, per fare un favore ad alcuni comparti.
La verità è che la questione economica e quella ambientale non devono essere messe in opposizione, ma devono andare di pari passo. E serve consapevolezza, sul fatto che il conto da pagare, se non contrasteremo il cambiamento climatico, sarà molto più salato.
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