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Conflitto Israelo-Palestinese

“Ho combattuto per Israele, ora voglio fermare la sua violenza”: parla il veterano Ori Givati

Dopo Gaza, “sta per esplodere” la Cisgiordania. L’esercito è “agli ordini dei coloni che espandono gli insediamenti”. In un “regime di apartheid sempre più violento serve l’intervento della comunità internazionale, con una forza di pace e una road map per un futuro senza sangue”. A dirlo è il veterano dell’esercito israeliano Ori Givati, intervistato da Fanpage.it.
A cura di Riccardo Amati
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Il veterano Ori Givati
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“La vostra missione è di far tener la testa bassa ai palestinesi, sempre”, disse l’ufficiale superiore. Ori Givati, comandante di carri armati e istruttore, cominciò a farsi parecchie domande. “Ero nell’esercito per proteggere il mio Paese, non per intimidire la gente”, ricorda oggi. “In Cisgiordania vige un regine di apartheid, e i soldati sono usati dai coloni per i loro fini”. La violenza imperversa e il territorio “è in ebollizione”. Potrebbe diventare “un posto più pericoloso di Gaza”. “Serve una forza internazionale di interposizione”, e le cancellerie mondiali “devono imporre a Israele di rinunciare alla vendetta e all’occupazione dei territori palestinesi, per perseguire un futuro di sicurezza reciproca e di pace”.

Givati ha 32 anni e ne ha spesi alcuni nelle forze armate israeliane. È il direttore di advocacy per Breaking the Silence, un’organizzazione di veterani che si oppongono all’occupazione permanente dei territori palestinesi da parte di Israele. Le loro testimonianze su come viene condotta l’occupazione sono illuminanti. Le violenze in Cisgiordania sono aumentate in modo drastico da quando la guerra a Gaza distrae molti osservatori.

L’Onu e diverse organizzazioni per i diritti umani come Yesh Din hanno documentato l’uccisone di oltre duecento persone, un aumento esponenziale degli arresti e la distruzione di almeno dodici comunità palestinesi. Nella piena impunità o quasi, sostiene Yesh Din. Secondo cui solo nel 10% dei casi sono stati aperti procedimenti giudiziari. Fanpage.it ha raggiunto Ori Givati al telefono a Tel Aviv.

Lei è stato un militare. Cosa faceva nell’esercito?

Formavo i comandanti dei carri armati, ma ho avuto anche compiti operativi. In vari luoghi più o meno caldi del Paese. Ed è stato durante la mia missione in Cisgiordania, nel 2016, che i miei dubbi su quel che facevo sono diventati assillanti. Ho cominciato a farmi molte domande sulla missione.

Perché?

Avevo a che fare ogni giorno con l’occupazione, coi modi in cui veniva condotta. Quel che cambiò la mia prospettiva fu la routine. La quotidiana invasione di villaggi, i check point “a campione” che intralciavano la vita dei cittadini. Erano atti che andavano contro l’intera popolazione. La missione, diceva il comandante, era di far sentire ai palestinesi dell’area sotto il nostro controllo che non avrebbero mai potuto alzar la testa. Ma io ero nelle forze armate per proteggere il mio Paese, non per intimidire la gente! Il fatto è che il modo in cui Israele concepisce la sicurezza e l’occupazione è quello del controllo totale della popolazione palestinese, attraverso l’intimidazione. È ciò che oggi l’organizzazione di veterani Breaking the Silence stigmatizza. Ed è ciò che allora fece cambiare le mie posizioni politiche.

Mentre l’attenzione del mondo è su Gaza, si è avuta una forte recrudescenza della violenza in Cisgiordania. Che succede, oltre il fiume?

Il fatto è che i settler, i coloni israeliani, si stanno approfittando della distrazione causata dalla guerra a Gaza per terrorizzare i palestinesi e provocare la loro fuga da comunità e insediamenti, che vengono occupati e “colonizzati”. Non è certo un fenomeno nuovo. Ma con questa guerra è diventato ancor più diffuso e violento. E, quel che è peggio, il processo è sostenuto dallo Stato. Israele non fa assolutamente niente per impedirlo. Ogni giorno, altre comunità vengono cacciate con la violenza per creare insediamenti israeliani, senza alcun intervento della polizia. D’altra parte, alcuni dei ministri del governo Netanyahu sono essi stessi settler.

La polizia non fa niente, quindi. E l’esercito?

L’esercito israeliano è un “impiegato” dei settler. Nel senso che è alle loro dipendenze. Quando infrangono le leggi non vengono mai fermati né tanto meno sanzionati. E questo non solo quando attaccano i palestinesi, e i militari proteggono l’attacco garantendone il successo. Ma anche quando creano insediamenti illegali, o espiantano oliveti. Perché per loro, per i settler, la legge non vale. E i soldati non sono che un mezzo per perseguire i loro scopi. Ci sono infiniti esempi di quel che dico. Forse il più clamoroso e violento è quello del villaggio di Huwara, attaccato e dato alle fiamme nel febbraio 2023. Un morto e cento feriti, alcuni gravi. L’esercito era lì ma non intervenne (l’attacco avvenne per vendetta dopo l’uccisione di due settler da parte di sconosciuti; il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, un settler egli stesso, a caldo chiese che Huwara fosse “spazzata via”, ndr).

Ci sono analogie fra l’apartheid modello Sudafrica e ciò chi impone Israele a est del Giordano?

Le caratteristiche sono molto diverse da quelle del Sudafrica di un tempo. Ma alcuni degli aspetti fondamentali dell’apartheid sono comuni. Uno su tutti: la coesistenza di due diversi sistemi giudiziari a seconda dell’etnia. Nella sua essenza, quello che vige in Cisgiordania è un regime di apartheid.

Mentre si cerca una soluzione per Gaza, la Cisgiordania potrebbe esplodere?

La Cisgiordania è in ebollizione e la situazione potrebbe ulteriormente radicalizzarsi perché il governo israeliano sembra voler far di tutto perché si radicalizzi con il suo sostegno ai settler e con quello che sta facendo a Gaza. La Cisgiordania potrebbe diventare un problema grande quanto quello di Gaza. Sono parecchio preoccupato. Il guaio è che stiamo facendo una guerra e continuiamo ad occupare e a colonizzare come se non ci fosse un futuro. Dopo il massacro dei nostri concittadini il 7 ottobre e dopo la tragica devastazione di Gaza, il governo di Israele pensa ancora solo alla vendetta, a mantenere l’occupazione e ai nuovi insediamenti. Senza alcuna lungimiranza. Non pensa alla sicurezza del nostro domani.

E allora, come si fa?

Credo che l’unica forza in grado di darci un futuro di sicurezza e di pace sia la comunità internazionale.

Che può fare la comunità internazionale, dal punto di vista pratico?

Dare al nostro governo precise linee guida e imporne l’implementazione.

Linee guida su cosa? Che dovrebbe imporre la comunità internazionale al vostro governo?

Prima di tutto dovrebbe intervenire direttamente in Cisgiordania per fermare la violenza e proteggere i palestinesi, visto che Israele non fa il suo dovere, schiva ogni responsabilità e non osserva il diritto internazionale. Poi deve sanzionare Israele, per i motivi appena detti. Ma soprattutto è necessaria una forza internazionale di pace. Perché la situazione è drammatica e peggiora sempre più. Le dichiarazioni non sono abbastanza. Servono fatti. Riguardo a Gaza, poi, si deve favorire una soluzione che porti a una maggior sicurezza, e non a ulteriori rigurgiti di violenza nel futuro. La comunità internazionale deve imporre a Israele di muoversi in quella direzione, abbandonando l’attuale politica vendicativa e senza prospettive.

Una soluzione a lungo termine potrebbe ancora prevedere due Stati?

Credo che sia ancora possibile. Non è la sola opzione. Ce ne sono altre. Ma non è questo il punto. Il problema resta l’atteggiamento di Israele. Vogliamo la sicurezza e la pace, e la possibilità per tutti di rimanere su queste terre? O vogliamo per il futuro ancora sangue, in nome della presunta supremazia ebraica?

Lei dove era, e cosa faceva il 7 ottobre?

Ero nel sud del Paese, vicino a Gaza, in un kibbutz nei pressi di quelli attaccati da Hamas. Alle sei e trenta del mattino siamo stati svegliati dal rumore delle esplosioni e dei colpi d’arma da fuoco. Ci siamo subito resi conto che stavolta non si trattava di una scaramuccia ma di un’offensiva su larga scala. Ho passato la giornata nel rifugio sotterraneo del kibbutz. Come ci han detto di fare le autorità, che con messaggi sul telefonino ci hanno avvertito della probabilità di un attacco diretto anche contro di noi. Cosa poi non avvenuta.

Ha avuto familiari o amici direttamente coinvolti nell’attacco di Hamas?

Sì, mi mandavano messaggi dal rifugio nel loro kibbutz dicendomi che i terroristi gli erano entrati in casa. Stavano camminando sopra le loro teste. Alla fine i miei familiari si sono salvati. Ma vi lascio immaginare il tenore di quei messaggi da un sotterraneo all’altro e l’orrore di quella giornata, in cui   è morta troppa gente.

Dopo i massacri del 7 ottobre, Israele aveva il diritto di difendersi, di proteggere i propri cittadini?

Certo che sì. È stata una mattanza per la quale non ci sono parole. Non si è trattato di resistenza legittima contro l’occupazione. Neanche lontanamente. Ma il diritto all’autodifesa non significa che possiamo fare quel che ci pare. Dobbiamo garantire che il nostro modo di combattere sia in linea con un futuro di maggior sicurezza per tutti. Non dev’esserci solo la vendetta per i massacri. Si deve pensare a un futuro di pace. Cosa che il nostro governo non fa da molti anni. Breaking the Silence, chiede che la guerra in corso porti a un futuro più sicuro per noi e i nostri vicini. Che non sia solo cieca vendetta.

Una domanda per il veterano comandante di tank. Negli ultimi giorni si è speculato sulla possibilità che le vittime del 7 ottobre siano state dovute anche al “fuoco amico” dei carri armati israeliani. È “tecnicamente” possibile?

Assolutamente no, vi risponde il vecchio carrista. Sappiamo esattamente cosa è successo il 7 ottobre. Abbiamo innumerevoli video ripresi dalla stessa Hamas che dimostrano come siano stati massacrati i civili israeliani. E credo che dovremmo parlare solo di questo, quando parliamo del 7 ottobre.

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