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Opinioni

Conti pubblici: non è l’Italia a infrangere maggiormente le regole

Sorpresa: non è l’Italia a rischiare di più quanto ad andamento dei conti pubblici e a rispetto dei parametri del Patto di Stabilità e Crescita europeo quest’anno e il prossimo. Ma non c’è di che rallegrarsi troppo, occorre riqualificare la spesa pubblica o l’Italia non tornerà a crescere…
A cura di Luca Spoldi
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Chi l’ha detto che sia l’Italia il paese più “indisciplinato” d’Europa per quel che riguarda l'andamento dei conti pubblici? Secondo un sondaggio condotto dall’agenzia Bloomberg presso analisti e gestori professionisti, sarebbero cinque quest’anno gli stati europei a rischio di infrazione delle regole comunitarie in termini di rapporti deficit/Pil: Francia, Spagna, Grecia, Croazia e Gran Bretagna. Per tutti le previsioni sono di uno sfondamento della soglia del 3% di deficit/Pil che dovrebbe essere sfiorata, con qualche rischio di sfondamento, anche da altri tre  paesi (Finlandia, Polonia e Romania).

Come dire che nonostante le periodiche polemiche e richieste di “manovrine” di primavera e d’autunno l’Italia con un 2,4% atteso per il 2016 e un 2% per fine 2017 rischia di fare persino bella figura. Certo, a musica è decisamente diversa per quanto riguarda il rapporto debito/Pil, che l’Italia difficilmente vedrà scendere sotto il 130% prima di qualche anno. Ma se si pensa che dal 1998, quando venne ufficialmente varato il Patto di Stabilità e Crescita, solo Svezia, Estonia e Lussemburgo sono riusciti a mantenersi al di sotto della soglia del 60% ufficialmente previsto, il “bel paese” è decisamente in buona compagnia.

Si noti inoltre che nonostante i ripetuti sforamenti la situazione sta lentamente  ma gradualmente migliorando nel vecchio continente rispetto all’indomani della crisi del 2007-2008: nel biennio seguente infatti almeno 22 dei 28 paesi avevano superato i limiti previsti dal patto. Se a questo punto il governo dovrebbe avere via libera senza troppi sospiri dalla Commissione Ue per quanto riguarda il via libera ai conti pubblici (anche se è scontato che verranno reiterati i consigli di affrontare una volta per tutte problemi come la produttività modesta, la scarsa competitività, i troppo bassi investimenti in innovazione) è però il momento di abbandonarsi a facili ottimismi e a pacche sulle spalle.

La spending review, completamente scomparsa dai radar della politica italiana, deve essere recuperata in modo selettivo, dato che il caso citato con clamore in questi giorni dalla stampa nazionale di Ferrovie Sud Est (Fse) dimostra fin troppo drammaticamente come ampie parti di quello che si chiama “settore pubblico allargato” abbiano semplicemente cessato, da tempo, di rispondere a una qualsivoglia logica economica. Un lusso che l’Italia non può permettersi, così come non può permettersi lo scandalo di non riscuotere migliaia di affitti di immobili di proprietà del demanio dati non a bisognosi o terremotati, ma a enti e società pubblici o privati, o il sottobosco delle “consulenze”, cresciute pare ormai alla bella cifra di un  miliardo di euro all’anno senza che si capisca esattamente a cosa servano e a chi.

Il problema, come sempre, è a monte prima ancora che a valle: i controlli che dovrebbero essere rigorosi, anche solo per decenza nei confronti dei fin troppo vessati contribuenti italiani, in molti casi non esistono, negli altri sono quasi sempre esclusivamente politici, sia pure a volte dietro una facciata formale di rispetto delle normative europee o di ricerca dell’efficienza e della competenza. La spesa pubblica, che sembra stare lentamente rientrando almeno quanto a dinamica, va con fermezza ricondotta alla razionalità economica, va riqualificata prima che genericamente tagliata, va ripensata anziché lottizzata in base alle clientele. Purtroppo per riuscirvi occorrerebbe agire su variabili che sono legate alla cultura di questo paese più che a singoli indicatori micro o macro economici.

Ecco perché a distanza di quasi dieci anni dall’esplosione della crisi quella italiana resta soprattutto una crisi culturale e la più manifesta evidenza che l’ex “bel paese” è ormai sclerotizzato e in stato fallimentare. Riusciranno a risollevarlo i suoi giovani, a cui si continua a negare ogni spazio che non sia un “contentino”? Riusciranno a farlo ripartire le sue startup, che continuano a pesare delle frazioni men che modeste del numero delle sue imprese e per di più delle frazioni di frazioni del reddito complessivo? La risposta la scopriremo nel corso di questi anni, ma le premesse restano a dir poco “sfidanti”, pur non essendovi alternative che provarci, provarci, provarci. O gettare la spugna e fuggire all’estero, a livello di soluzione personale, naturalmente.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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