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Toni Servillo spiega “Le voci di dentro” (INTERVISTA)

In occasione del ritorno a Napoli al Teatro Bellini di “Le voci di dentro” abbiamo incontrato l’attore e regista Toni Servillo per farci guidare da lui nella lettura di un’opera tra le più cupe e spietate che Eduardo abbia scritto.
A cura di Andrea Esposito
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In occasione del ritorno a Napoli al Teatro Bellini di “Le voci di dentro”, dove resterà in scena fino al 18 gennaio, abbiamo intervistato il regista e attore Toni Servillo per farci guidare da lui nella lettura di una delle opere più cupe e amare dell’intero corpus eduardiano, costantemente in bilico tra realtà e sogno.

“Le voci di dentro”: il contesto

Il testo, scritto da Eduardo nel 1948, fu inserito dall’autore all’interno della “Cantata dei giorni dispari” che raccoglie le commedie scritte dal 1945 al 1973, vale a dire, da “Napoli milionaria” a “Gli esami non finiscono mai”. Questo ciclo, come ci ha raccontato anche Servillo, affronta non senza una certa dose di pessimismo, i problemi legati alla realtà sociale italiana sopravvissuta alla distruzione materiale, ma soprattutto morale, causata dalla seconda guerra mondiale. A tal proposito è emblematico, in “Le voci di dentro”, il personaggio di Zi’ Nicola (Sparavierzi) lo zio dei fratelli Saporito che vive nella casa dei nipoti rintanato su di una sorta di palafitta, un soppalco ricavato nel soggiorno, e che da anni ha rinunciato a parlare: “Se l’umanità è diventata sorda allora io posso pure essere muto”, questa la motivazione riportata dal nipote Alberto. Quest’ultimo oltre a essere il depositario di questa amara confessione è anche l’unico a essere in grado di interpretare le sue comunicazioni che avvengono solo ed esclusivamente attraverso fuochi d’artificio che l’anziano zio utilizza come una sorta di codice Morse.

Ma cosa vuole dirci Eduardo?

La cupezza e il pessimismo che emerge in “Le voci di dentro” è in sintesi: “un veemente grido d’allarme che ci ricorda – secondo Servillo – il fatto che ci troviamo in una società che ha talmente perso la bussola morale da legittimare qualsiasi crimine e che tratta l’assassinio, inteso sia nell’accezione di delitto fisico, sia di assassinio morale, con la stessa semplicità con cui si tratta una cosa da nulla. Questa forma di indifferenza – prosegue Servillo – di mancanza di credo in qualsiasi principio è ciò che rende questo testo ancora oggi interessante”.

Realtà e sogno

“Le voci di dentro” è un testo che oscilla costantemente tra realtà e sogno: “Io non mi ricordo se me lo sono sognato o se è successo veramente” ripete più volte Alberto Saporito riferendosi al presunto delitto commesso dai membri della famiglia Cimmaruta. “Il sogno – afferma Servillo – interviene sulla realtà modificandola, facendocela comprendere meglio […] quest’uomo vive un incubo che è il riflesso di una società malata, che gli produce questo incubo e che glielo fa proiettare sugli altri”. In altre parole Servillo interpreta l’opera non come un ritratto, seppure degenerato, della famiglia, come può essere “Natale in casa Cupiello” o “Sabato, domenica e lunedì”. Qui, piuttosto, i personaggi che ruotano attorno al protagonista sono atomizzazioni di una coscienza inquieta, proiezioni di un’angoscia verso il reale che spinge Alberto a ricercare a tutti i costi una qualche giustizia e che lo condurrà, nel finale, a delle terribili conclusioni. “In definitiva – conclude il regista – l’impasto tra realtà e sogno è molto interessante sul piano drammaturgico ma “Le voci di dentro” non è un testo sospeso in una dimensione onirica, ma un’opera in cui il sogno mette in moto un meccanismo di comprensione più acuta della realtà”.

La centralità dell’attore

La messinscena di “Le voci di dentro” prosegue nel solco tracciato negli ultimi vent’anni da Toni Servillo, un percorso poetico che fa dell’attore e della parola il suo fulcro, il suo maggiore punto di interesse: dai Molière (“Il misantropo” e “Il Tartufo”), al Marivaux di “Le false confidenze” fino al Goldoni della “Trilogia della villeggiatura”. Abbiamo perciò chiesto a Servillo di spiegarci, in forma evidentemente concisa e semplificata, i motivi di una scelta tanto rigorosa quanto ferma e inflessibile per uno che alla fine degli anni ’70 è venuto a contatto con le realtà dell’avanguardia europea e americana: “Col tempo ho trovato che il teatro è il luogo in cui la parola trova una sua necessità, una sua purezza, una sua condizione di chiarezza, di nitore, come nella poesia. A teatro si può chiedere alla parola, si può domandare alla parola, quelle stesse cose che si cercano in un testo poetico nella speranza che quella parola ci ritorni in maniera chiarificatrice, che ci orienti nella vita”.

Il nostro Molière

In conclusione abbiamo chiesto a Servillo di provare a mettere in relazione l’opera di Eduardo con quella di un altro grande drammaturgo europeo o internazionale a sua scelta. Come Antonio Latella qualche settimana fa ci ha risposto “Eduardo è il nostro Cechov” così Servillo ci ha detto che, a suo parere, Eduardo può essere considerato come una sorta di Molière italiano.

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