549 CONDIVISIONI
video suggerito
video suggerito

Biagio Antonacci: “Mi sono accontentato di avere successo, ho usato poco la testa”

Si chiama L’inizio il nuovo album di Biagio Antonacci che riflette sul presente, sui cambiamenti e sul ricominciare continuamente.
A cura di Francesco Raiola
549 CONDIVISIONI
Biagio Antonacci (ph Paola Cardinale)
Biagio Antonacci (ph Paola Cardinale)

La telefonata con Biagio Antonacci comincia facendogli ascoltare la versione islandese di Iris, cantata dal cantautore Björgvin Jónsi. Il cantautore casca dalle nuvole, non la conosceva, ma questo dà l'idea delle tante strade che possono prendere certe canzoni, soprattutto quelle che hanno una storia e una notorietà come quella. Oggi, però, Antonacci non lo sentiamo per celebrare quella canzone, quanto per parlare de L'inizio – titolo del suo ultimo album – e degli inizi della vita, quelli artistici, certo!, ma anche quelli privati, come la nascita a 58 anni del terzo figlio, Carlo. Di inizi e cambiamenti, di rimpianti e spinta futura, di Club Dogo, nuove classifiche, dell'amicizia con Giorgio Poi e della canzone che il cantautore ha scritto e dà il nome a un album che è un distillato antonacciano, pieno di riflessioni sul presente, che mescola pop e si arrischia anche in sonorità più dance e che si fa ispirare dalla vita di Anita Garibaldi per scrivere un pezzo "estivo".

Quando ci sentimmo qualche mese fa mi dicesti: “Ci sono le canzoni del passato, ovviamente, che non è una cosa scontata, ma è il presente la vera realtà continua”. Mi parli di questo presente, prima di parlarmi de L'inizio?

Intanto credo che il presente sia l'inizio, infatti ho sbagliato il titolo perché il disco doveva chiamarsi Presente, poi Circolarità, come la fase orientale della vita che è circolare, appunto, non lineare come quella Occidentale: la natura è circolare, la potatura della vigna o dell'ulivo sono circolari, per esempio, perché non c'è mai una morte, non c'è mai fine. L'inizio è oggi, è ogni secondo che viviamo, non dobbiamo avere paura dei cambiamenti o di essere troppo estremi nella nostra vita: c'è una mente che gestisce ma c'è anche un cuore che ha paura, teme la troppa energia, ma teme anche il troppo rischio, nella vita, però, non esiste il rischio, poi è chiaro che se uno va contromano muore, certo, ma se cambia canale, nella propria vita, non muore. Oggi, se cambi città o lavoro vieni quasi indicato come un irresponsabile, invece stai solo nutrendo la tua fantasia e hai il diritto di farlo.

Questa cosa mi fa venire in mente il libro "Una seconda vita" del filosofo François Jullien che dice che ciascuno di noi ha due vite, e la seconda inizia proprio nel momento in cui realizziamo di averne solo una, ovvero quando cominciamo a pensare che esiste la fine, la morte…

Vero, questa cosa è molto bella, purtroppo io sono ignorante culturalmente, proprio dal punto di vista della Letteratura. Però io leggo la strada, sto in mezzo alla strada, la mia esperienza la faccio con la gente che mi parla e se questo da un lato è un limite, dall'altro è anche una fortuna. Questa cosa della seconda vita è vera, mentre ti parlavo dell'importanza del cambiamento, prima, pensavo: ah se potessi tornare indietro!

Perché?

Perché ti stavo raccontando una cosa che non ho fatto appieno. Io non ho avuto il coraggio di cambiare e quando l'ho fatto, per nuovi amori, per esempio, ho sempre avuto il terrore del giudizio degli altri. Ho sempre avuto paura di abbandonare, di lasciare, ora le persone che mi stanno vicino mi riconoscono per quello che sono e non tentano più di cambiarmi, perché è un gesto irresponsabile cambiare le persone. È come bloccare una donna che ha aspirazioni personali solo perché tu arrivi da una cultura maschilista, che è quella da cui arrivo anche io, attenzione! Mia madre, milanese, si è trovata un uomo meridionale, pugliese, che non dico che l'abbia chiusa in casa però l'ha trattenuta, era molto geloso e io in casa l'ho percepita questa tensione, probabilmente anche io sono stato portatore di quella cultura, però oggi sono un uomo libero, che lascia libertà, sono un uomo che non sa comandare, ma che non vuole essere comandato.

La canzone che dà il nome all'album, L'inizio, è scritta da uno dei cantautori più importanti che abbiamo, Giorgio Poi, con cui hai instaurato un rapporto importante, di amicizia. Mi racconti come nasce questa amicizia e come mai hai deciso di affidare a lui la canzone più rappresentativa dell'album?

Giorgio è venuto a vivere a Bologna da Roma qualche anno fa. Io non lo conoscevo, poi un giorno mio figlio Paolo mi dice: "Lo vedi quel ragazzo che passeggia? È Giorgio Poi", sono andato a leggermi la sua storia e capisco chi è, così è capitato che l'ho fermato – lui era assieme ai suoi genitori – ci siamo ripromessi di vederci, l'ho invitato da me e siamo diventati amici. Una notte, mentre passeggiavamo per Bologna, parlavamo di vita, di paternità, lui mi aveva detto di non essere ancora padre ma che gli sarebbe piaciuto e io gli dissi che aspettavo il mio terzo figlio: "Dovremmo vivere così, di nuovi inizi, sempre" dissi, filosofeggiando sull'inizio. Passano due giorni e mi fa: "Lo sai che ho scritto un appunto per te?", gli chiedo di farmi ascoltare quello che aveva scritto e mi risponde: "No, ma tu canti canzoni tue", insisto per ascoltarlo, è bellissimo e gli chiedo di finirlo, lui mi propone di chiudere insieme la canzone, ma insisto che a terminarla sia solo lui. Quando Paolo Conte scrisse per me "Le veterane" e Franco Battiato "Aria di cambiamento", io non mi permisi di cambiare neanche una parola e Giorgio Poi l'ho trattato nello stesso modo, gli ho detto: "Tu scrivi una canzone per me, bella, e io non voglio metterci neanche una virgola" e così è stato. Ha scritto un testo bellissimo, una canzone profonda, emotiva, alla presentazione quando l'ho cantata mi sono commosso perché ho visto la gente commuoversi.

Insomma, un altro lato del fare musica.

Esatto, mi sono detto: hai visto che cos'è la musica? La musica è anche fare il cantante, non è solo pensare di essere un cantautore. Non ti nego che da quell'esperienza mi è venuta voglia di fare un disco di canzoni di altri, perché oggi penso di avere una voce riconoscibile: scrivere canzoni è un impegno, ma cantarle è una roba da ridere per me, è la cosa più facile al mondo.

Prima parlavi di cambiamenti: costa il cambiamento per un artista come te?

Certo che ha un costo. Per me cambiare vuol dire esplodere, il tuo ego deve fare un passo indietro perché l'ego non ti porta al cambiamento ma vuole la sicurezza, vuole lo status quo, l'ego vuole la certezza, vuole che tu sia potente, che tu sia ricco, che tu possa dimostrare la tua potenza, a volte anche attraverso la forza fisica. Ma cambiamento vuol dire lasciare alle spalle tutte le certezze, spogliarti con una canzone: alla fine di Bastasse vivere canto: "Mi sono permesso dolori e favole, poi nudo ho capito chi c’è e chi no", perché solo così, nudo, capisci chi sei, però questa cosa ha un prezzo, il prezzo della solitudine, quello dell'inquietudine e anche della non comprensione.

Parli di tuo figlio Carlo nell’album, com’è essere padre a 60 anni? Com’è cantarlo, raccontarlo e viverlo?

È molto bello, mi dà molto orgoglio pensare che ci sia speranza per tutti. Quando è nato Carlo, mio figlio grande, Paolo, mi ha detto: "Se mio padre fa un figlio a 58 anni ha i coglioni e se lui li ha, io devo prendere spunto da questa cosa perché sono qua, a 25-26 anni, a lottare contro l'amore, e se mio padre fa un gesto simile alla sua età vuol dire che la vita è eterna". Credo che sia un bel segnale.

L’idea di un inizio continuo non rischia di portare all’ansia e al blocco dello scrittore?

Hai usato una parola giusta: ansia. Come cantautore proietti il futuro di quello che stai già facendo, cioè tu scrivi una canzone perché sai che domani qualcuno la guarderà e la giudicherà, quindi ti chiedi se sarai in grado di farlo bene e da lì parte l'ansia. Però così non ti stai godendo l'energia che hai nel presente perché stai già pensando alla proiezione che hai nel futuro, ed è la cosa che i giovani devono cancellare dalla testa, perché l'ansia porta solamente alla sconfitta.

Sempre nella nostra intervista parlavi di come un limite poteva essere che “probabilmente il prossimo disco non andrà prima in classifica”. Oggi questa cosa è asfissiante? E in che modo influenza il giudizio quantitativo (non qualitativo) sul disco?

Che il disco non andrà primo in classifica è ovvio, perché non esiste più la classifica con cui si confrontava la mia generazione anni fa, oggi è diversa, è una classifica di clic e di streaming dedicati a un pubblico giovanissimo, quindi noi senior non possiamo più pensare di andare primi in classifica. Tra l'altro io esco nel giorno in cui esce il nuovo album dei Club Dogo e, ovviamente, andranno primi loro classifica. Però se vanno primi in classifica i Club Dogo sono contento, perché anche loro sono figli miei.

Li aiutasti a trovare una sponda nel mainstream con Ubbidirò, poi Don Joe, con Tananai, ha rifatto Sognami e l'avete portata a Sanremo…

I Dogo sono parte di me, li ho seguiti quando erano degli artisti più di nicchia, invece adesso fanno dieci forum e un San Siro e questa cosa è bellissima: supportare e aver creduto in una band che ha scritto la Storia è una figata!

La tua, poi, sarà una carriera piena di coincidenze…

È piena di coincidenze, pensa che io andavo in un bar a Colle San Lorenzo dove li incontravo tutte le sere, ma c'erano tutti, Marracash era un ragazzino, mi faceva sentire i provini in macchina… Li ho visti crescere tutti e per me è un grande vanto questo, sono felicissimo che questa musica sia stata sdoganata, oggi siamo diventati noi la nicchia.

Però i live li fai ancora e li riempi ancora, no?

Assolutamente, anzi ti dico che oggi la mia classifica sono i concerti. Quando vedo che senza canzoni nuove riempio un po' di Palasport vuol dire che ho lasciato la traccia, e quella è indelebile. In quel caso il passato non è più solo malinconia, ma è una concreta malinconia.

Ti chiedi mai quale tra le nuove canzoni sarà quella che resterà? Una nuova Iris, per dire?

No, non credo che ci sia un'altra Iris nella mia vita. Ieri una ragazzina di 18 anni mi ha abbracciato e mi ha detto: "Io mi chiamo Iris grazie a te", capisci che soddisfazione enorme! A livello numerico e di popolarità comunque no, non ci sarà un'altra Iris, però sicuramente ci sarà un'altra Anita – canzone che potrebbe essere il singolo dell'estate -, mentre ho amici che hanno chiamato la figlia Amelie (nella canzone "Per farti felice" Antonacci canta: "Quindi aspetto che venga la notte per fare una figlia e chiamarla Amélie", ndr).

A proposito delle cose non fatte, quali sono i maggiori rimpianti? Nelle canzoni parli anche di tuo padre, per esempio.

Sì, si parla di mio padre, ma a parte questa cosa che è molto importante, alla fine l'altra cosa importante, il mio rimpianto, è che mi sono accontentato di avere successo e non va bene perché nella vita c'è molto altro oltre al successo. Io potevo fare molto di più artisticamente, la mia testa è stata usata poco.

Però c'è ancora tempo, no?

Certo, adesso iniziamo.

L'altra volta mi dicesti che volevi fare il direttore artistico di Sanremo, dopo Amadeus, lo confermi?

Sì, certo.

549 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views