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Bce: Draghi prova a forzare la mano alla Merkel

La Germania chiede alla Bce di “stare attenta” a non provocare effetti contrastanti con la necessità di riforme? E subito circolano rumor sul lancio di un programma di acquisto di bond doppio rispetto alle attese, mentre anche il Canada taglia i tassi…
A cura di Luca Spoldi
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A pensare male si potrebbe dire che Mario Draghi stia mandando in esplorazione i propri colleghi delle banche centrali di mezzo mondo (dopo la Svizzera e la Danimarca oggi anche il Canada ha tagliato, a sorpresa, i tassi di riferimento sul dollaro canadese, peraltro già sui minimi degli ultimi 5 anni e mezzo nei confronti del dollaro Usa) per mettere tutti di fronte al fatto compiuto e avere veramente le mani libere, domani, in merito alle dimensioni e alla gestione del “quantitative easing” (programma di acquisto di bond e titoli di stato sul mercato) che è ormai evidente che la Bce si appresta ad annunciare. Certo ha fatto balzare dalla sedia più di un gestore l’indiscrezione, rilanciata contemporaneamente dall’agenzia Bloomberg e dal Wall Street Journal, vale a dire dalle “colonne portanti” dell’informazione finanziaria a stelle e strisce, mai tenera con l’euro e la Bce, in merito al QE made in Europe.

Secondo tali voci, infatti, Draghi domani potrebbe/dovrebbe annunciare che il programma, a partire dai primi di marzo, andrà avanti fino al 2016 e vedrà acquisti sulla base di un limite mensile di 50 miliardi di euro, che porterebbe in caso di pieno utilizzo del plafond ad un totale di 1.100 miliardi di euro di controvalore, pari ad un 50% di incremento rispetto ai 2,2 miliardi di attivo che l’Eurosistema segnava a fine dicembre 2014 secondo i dati diffusi dalla stessa Bce (di cui però solo 630,3 miliardi rappresentati da prestiti a favore di banche di eurolandia, e di questi poco più di 473 miliardi legati a operazioni di rifinanziamento a più lungo termine), ma soprattutto pari al doppio di quei 500-600 miliardi di cui da settimane ragiona il mercato, che finora ha semmai temuto che tali importi potessero essere ripartiti pro-quota in capo alle singole banche nazionali, pessimo segnale (nel caso in cui venga effettivamente così deciso) che avvicinerebbe la fine dell’euro dimostrando ancora una volta l’incapacità delle autorità europee a trovare un accordo per condividere i rischi, ossia un’unità politica che resta determinante per riuscire a risolvere una volta per tutte le differenze macroscopiche (economiche, giuridiche e culturali) esistenti tra i 19 paesi membri dell’euro.

Non possedendo la sfera di cristallo non proverò neanche per un istante a lanciare i dadi e indovinare l’importo che Draghi annuncerà domani (sempre che non rimandi tutto al 5 marzo, anche a costo di far cadere immediatamente i prezzi di asset che nelle ultime settimane hanno corso fin troppo, azioni o bond che siano), certo è difficile non notare che il braccio di ferro in corso, al di là dei toni felpati, è sempre più violento e sta spaccando in due l’Eurozona tra chi (la Germania e qualche suo alleato) ha problemi di eccessiva liquidità e tassi troppo bassi e chi di tale liquidità e tassi bassi avrà ancora bisogno a lungo per cercare di ripartire in qualche modo. Va da sé, come mi ricordano, giustamente, alcuni colleghi ogni volta che se ne discute, che fintanto che la crisi che attanaglia il Sud Europa resta una crisi da domanda, che un regime di repressione fiscale voluto o quanto meno tollerato da Berlino (ma i cui effetti si scaricano principalmente su Italiani, Spagnoli, Greci e Portoghesi) ha ulteriormente accentuato cercare una risposta alla crisi medesima che sia unicamente di politica monetaria (offerta di liquidità) e non anche fiscale è vano.

Come è vano in generale sperare che riforme più o meno convincenti e fatte sempre dando l’impressione di strizzare l’occhio all’amico e fare lo sguardo severo nei confronti degli avversari, impressione che resta molto marcata anche nel caso, ad esempio, della riforma del settore del credito popolare (certamente lodevole ma i cui effetti concreti rischiano di essere molto modesti al netto di un ulteriore rialzo dei mercati e della “messa in sicurezza” di alcuni istituti vicini al Centrosinistra, come Mps, o al Centrodestra, come Carige) varata ieri con decretazione d’urgenza (nonostante poi si siano concessi 18 messi alle 10 maggiori banche popolari italiane per aggiornare la governance eliminando il voto capitario e trasformandosi in Spa), ma tutte direttamente o indirettamente in grado di produrre i propri effetti solo sul lato dell’offerta, possano fare il miracolo di risollevare anche la domanda. No, non ci siamo e spiace dirlo perché alcuni provvedimenti parrebbero pure sensati, se non nella concreta attuazione almeno nello spirito col quale vengono formalmente proposti.

Le divisioni interne all’Europa e l’abitudine tutta italiana di non affrontare direttamente alcun problema, che si tratti della qualità della spesa pubblica come del sostegno alla domanda, dell’incentivo all’innovazione come dell’avvio di una riforma culturale che consenta al paese di sfruttare le nuove tecnologie e non esserne vittima, stanno rendendo la crisi una presenza costante e destinata ad incidere pesantemente e negativamente sulle prospettive delle generazioni attuali e future di lavoratori e contribuenti italiani. Il quantitative easing di Mario Draghi non risolve nulla di tutto questo, può al più consentire a qualche banca di alleggerire il proprio fardello di titoli di stato, al prezzo di mantenere ancora più a lungo del previsto tassi “innaturalmente” sotto zero o interno allo zero. Che c’è di male si chiederà qualcuno? C’è di male che mentre chi si è indebitato può sfruttare la situazione (ma la cosa rischia di rimanere teorica sinché le banche stesse, a fronte di una cattiva qualità del credito pregresso e della debolezza della domanda non torneranno a erogare maggiori flussi di credito), chi vuole investire dovrà continuare ad accettare un maggior rischio per ottenere rendimenti decenti.

Questo, lo si è visto pochi giorni fa con la decisione della Svizzera di “liberare” a sorpresa il cambio euro/franco svizzero, può costare molto caro, portando a perdite repentine in grado di azzerare anni di risultati utili in poche ore. Se vi sembrano problemi lontani vi ricordo che tra gli investitori obbligati a correre più rischi del necessario ci sono e ci saranno di questo passo sempre di più anche i fondi pensione, per di più da quest’anno gravati in Italia di un ulteriore incremento della pressione fiscale sui risultati di gestione. Così la risposta sbagliata ai problemi attuali rischia di perpetuarli e di incidere due volte negativamente sul nostro futuro. Decisamente le nuvole all’orizzonte sembrano minacciose, speriamo che più che a Berlino o a Roma almeno a Francoforte qualcuno sappia cosa sta facendo, nonostante le apparenze contrarie.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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