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Torino, richiedenti asilo impacchettavano pennarelli di marchi noti a 150 euro al mese

I lavoratori richiedenti asilo, tutti di origine africana, sottostavano a questo ricatto perché serviva loro per avere il documento per il riconoscimento del permesso di soggiorno. Tutti infatti pare fossero regolarmente assunti ma con contratti part time fittizi e se protestavano venivano licenziati.
A cura di Antonio Palma
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Immagine di archivio
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Letteralmente rinchiusi in un capannone e costretti impacchettare pennarelli di marchi noti sette giorni su sette per 11 ore al giorno e per uno stipendio di appena 150 euro al mese a cui dovevano essere decurtati ben 50 euro per il rilascio di documenti che servivano loro a ottenere il permesso di soggiorno. È quanto sarebbero stati costretti a sopportare un cinquantina di lavoratori richiedenti asilo in un fabbrica del Torinese ora chiamata in giudizio da tre dei dipendenti per sfruttamento del lavoro. "Quando usciva, il proprietario ci chiudeva dentro a chiave, avremmo potuto morire se fosse scoppiato un incendio, Ci aveva tolto la dignità", hanno dichiarato i tre davanti al tribunale del lavoro dove si sono presentati esistiti dal sindacato Cub.

L'azienda sotto accusa aveva sede in un capannone senza riscaldamento di San Mauro Torinese dove, secondo i lavoratori, i dipendenti erano sorvegliati a vista e costretti a lavorare con turni massacranti con solo una pausa di pochi minuti per il pranzo. Quando in tre si sono lamentati, pretendendo che la paga salisse almeno a 25 euro al giorno, sono stati licenziati in tronco. Tutti infatti pare fossero regolarmente assunti ma con contratti part time fittizi. I richiedenti asilo, tutti di origine africana, sottostavano a questo ricatto perché serviva loro per avere il documento per il riconoscimento del permesso di soggiorno.

Oltre alla causa di lavoro, l'avvocato dei tre lavoratori ha presentato in procura anche un esposto per sfruttamento del lavoro. "Occorre risalire la catena dei committenti per accertare eventuali responsabilità negli appalti" ha spiegato infatti il legale a Repubblica, aggiungendo: "E la cosa che lascia perplessi è che la società per cui lavoravano è ancora operativa e continua a sfruttare altri migranti che hanno bisogno di lavorare", spiega la Cub. "In qualità di richiedenti asilo – si legge nell'esposto – si trovavano in evidente stato di soggezione rispetto al datore di lavoro, data l'importanza per loro di poter provare di avere un'attività lavorativa utile al riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il datore di lavoro non perdeva occasione di ricordare loro che se volevano continuare a lavorare e sperare di ottenere il permesso di soggiorno, dovevano accettare le condizioni di lavoro da lui dettate".

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