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Ciao, io sono Natascia Grbic e questa è ‘Streghe”, il nostro Osservatorio sul patriarcato, la nuova Newsletter di Fanpage che tratta di femminismo e questioni di genere. Ti starai chiedendo: ma chi è questa? E non hai tutti i torti. Sono giornalista a Fanpage dal 2019, dove mi occupo di cronaca di Roma e questioni di genere. Sono nata e cresciuta politicamente nei collettivi universitari, negli spazi sociali, e ovviamente nelle assemblee femministe. Questa Newsletter si chiama ‘Streghe’ non perché ci sentiamo perseguitate, ma perché siamo l’incubo del patriarcato. E insieme facciamo paura.

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“Si prenda cura di sé stesso, figliolo. Glielo dico sul serio, si prenda cura di sé stesso. È una tragedia per questa corte vedere un tale totale spreco di umanità come quello che ho visto in questo tribunale. Lei è un uomo giovane e brillante, avrebbe potuto essere un buon avvocato. Avrei voluto vederla in azione, ma lei si è presentato dalla parte sbagliata. Si prenda cura di sé. Non ho nessun malanimo contro di lei. Voglio solo che lo sappia. Si prenda cura di sé stesso”.

Nel 1980 il giudice Edward Cowart ha condannato il serial killer Ted Bundy alla pena capitale per la morte di tre ragazze (Bundy ha confessato in seguito di averne uccise altre ventisei). Un finale abbastanza scontato. Ciò che però è rimasto nella storia, sono le parole con cui il giudice si è rivolto a uno dei serial killer più efferati della storia. Parole piene di empatia, di riconoscimento. Il giudice è riuscito a immedesimarsi in Bundy, in quell’uomo bianco, colto, dall’apparenza gradevole e dall’eloquio sorprendentemente fluido. Tanto che “lo spreco di umanità” viene visto in lui, non nelle decine di donne la cui vita è stata stroncata brutalmente. Le parole del giudice Cowart vengono descritte ancora oggi come una profonda testimonianza di sensibilità umana. Nessuno pensa che siano invece parole pericolose, che contribuiscono a rafforzare le radici alla base della violenza di genere, e ad alimentare la cultura dello stupro. Ma come, lo ha condannato alla pena capitale e ci lamentiamo pure?

Nel 2025 il procuratore capo di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, al termine della requisitoria in cui ha chiesto nove anni di carcere per Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, ha dichiarato: "Parliamo di sei ragazzi che allora avevano 19 anni. Due ragazze che hanno subito quel che hanno subito, quattro ragazzi che vivono comunque una situazione drammatica". E ancora: "Non è stato un processo facile, ci siamo impegnati senza farci travolgere dalle emozioni. Tutti questi ragazzi e ragazze sono stati coinvolti in una vicenda più grande di loro per la quale hanno sofferto e stanno soffrendo". Ciro Grillo, l’imputato più in vista, viene descritto come ‘provato’, ‘in lacrime’. L’avvocato Vincio Nardi, legale di parte civile della seconda ragazza che ha denunciato lo stupro di gruppo, ha aggiunto: "Come posso non immedesimarmi in un praticante che aspetta un figlio? Mi immedesimo in questo praticante prossimo padre, imputato, che dice con una certa umiltà: ‘Eravamo tutti consapevoli'. Ecco. Il problema di questo processo è che tutto è controvertibile. Quello che non è lo è, è che non tutti eravamo consapevoli perché c'era una persona che dormiva".

Prima di andare avanti (ti conosco mascherina!), è doveroso un disclaimer grosso quanto il matrimonio di Bezos: oggetto di questa analisi non è stabilire se gli imputati siano colpevoli o meno. C’è un processo in corso, non è mia intenzione sostituirmi ai giudici, e non starò qui a disquisire se gli anni chiesti dal pubblico ministero siano congrui o meno. Quello che voglio capire è come sia possibile che, in un processo dove quattro persone sono accusate di stupro di gruppo, si scelga di avere parole empatiche e comprensive per chi di quel reato è accusato. Mentre le vittime passano, ancora una volta, in secondo piano.

A questo punto è doverosa anche un’altra precisazione, perché a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si prende. Non sto paragonando Ted Bundy a Ciro Grillo,  Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Ho citato le parole del giudice Cowart perché rappresentano un esempio significativo di empatia mostrata dall’autorità giudiziaria nei confronti di uno degli imputati più noti della storia recente. Un atteggiamento che si è riproposto nel tempo, in processi di diversa notorietà, e che abbiamo riscontrato anche nel procedimento oggetto della nostra analisi.

Ho parlato delle parole usate da avvocato e pubblico ministero con Tatiana Montella, penalista esperta in tematiche di immigrazione e violenza di genere.

“Questo meccanismo di immedesimazione con un uomo accusato di stupro è particolarmente allarmante – spiega Montella -. Sembra assurdo dover sottolineare che non si tratta di una vicenda che colpisce tutte le parti allo stesso modo, perché c’è chi ha scelto di agire e chi invece quella scelta l’ha subita. Nessuno pensa che la violenza si risolva buttando la chiave e facendo marcire le persone in carcere, il tema non è quello: lo è il provare una sorta di empatia con un giovane uomo accusato di un reato particolarmente odioso. Parliamo di un soggetto che beneficia di privilegi legati alla propria posizione, e di altri uomini che, pur non essendo imputati né lo saranno mai, riescono a riconoscersi in quei privilegi e ad immedesimarsi in lui. Non è un caso se, ancora oggi, sono sempre le persone offese a dover dimostrare qualcosa: di non essere ‘facili’, di non aver bevuto, di non essersi messe ‘in una situazione ambigua’. È questo il vero dramma: e non è qualcosa che può essere messo sullo stesso piano. La cultura dello stupro si fonda proprio su questo: l’idea di poter disporre del corpo di una donna e della sua libertà di autodeterminarsi, perché ‘se io lo voglio, allora anche tu lo vuoi’. Un’idea sorretta dalla consapevolezza di beneficiare di una protezione sistemica, quella di cui gode il genere maschile (privilegiato) rispetto a un genere che, ancora oggi, è costretto a dimostrare di non aver fatto nulla di sbagliato”. 

La pedagogista Alessia Dulbecco, autrice del libro per Edizioni Tlon ‘Si è sempre fatto così’, ha parlato di ‘Himpathy’, un concetto formulato dalla filosofa Kate Manne che “descrive la tendenza sociale e culturale a provare empatia e compassione sproporzionate per uomini accusati di comportamenti violenti o misogini, a discapito delle vittime, che passano invece in secondo piano”. 

“Non sono solo gli uomini a cercare attenuanti nei casi di violenza sessuale: spesso anche molte donne tendono a distanziarsi da chi ha esposto le accuse, prendendo più o meno velatamente le parti dell’accusato. Anche in ragione del fatto che, rispetto ad altri reati – come ad esempio una rapina, dove è evidente che qualcosa prima c’era e poi non c’è più – qui entra in gioco il concetto di consenso, che rende i contorni apparentemente meno definiti, si tende a pensare che sia più prudente aspettare, non esporsi. Invece di credere alla vittima, il discorso pubblico si popola di frasi come: ‘vediamo come va’, ‘aspettiamo di capire’, ‘non possiamo sapere cosa è successo davvero’. Ma questa sospensione del giudizio, che si presenta come neutralità, finisce per proteggere – ancora una volta – chi detiene già una posizione di forza”.

Non è perciò esclusivamente una questione maschile, quanto di struttura sociale. Viviamo in un sistema che tende a minimizzare certi comportamenti quando agiti dagli uomini. Non è un caso se, nel processo in questione, il procuratore ha parlato di ‘ragazzi – 2 ragazze e 4 ragazzi’ che “vivono una situazione drammatica", di fatto equiparando i vissuti delle parti in causa e trattando gli accusati come se fossero soggetti passivi travolti da qualcosa di più grande di loro.

Il problema è sociale, e riguarda l’adesione automatica a norme di genere preesistenti, che definiscono ciò che consideriamo idoneo per il maschile o il femminile. L’empatia che spesso riserviamo a chi è accusato di crimini violenti – in particolare quelli sessuali – non si manifesta con la stessa intensità nei confronti di altre soggettività. Pensiamo al caso di Alessia Pifferi o di Chiara Petrolini che, a Parma, ha seppellito i neonati in giardino: in quei casi la condanna è immediata, feroce, e riflette la convinzione culturale che la violenza esercitata da una donna, soprattutto nei confronti della prole, sia innaturale e imperdonabile. Questi episodi riguardano reati molto diversi da quelli contestati nel caso Grillo. Tuttavia, osservare come reagisce l’opinione pubblica nei due ambiti può essere utile per mettere in luce una dinamica culturale: quando l’accusato è un uomo, specie se giovane, di buona famiglia, il discorso pubblico tende alla cautela, alla giustificazione, alla sospensione del giudizio. Quando invece l’imputata è una donna, la reazione mediatica e sociale è spesso immediata e punitiva. Nei casi di violenza sessuale agita da insegnanti uomini ai danni di alunne o alunni, si tende rapidamente a dimenticare, non prima di aver setacciato ogni dettaglio della vita delle ragazze che hanno sporto denuncia. Quando invece è una docente donna a essere coinvolta, lo spazio mediatico si amplifica, il caso diventa racconto, oggetto di curiosità morbosa. Ancora una volta, ciò che riteniamo scandaloso o perdonabile non è guidato solo dalla legge, ma dalle aspettative di genere che regolano il nostro sguardo.

La filosofa Nicole Gavey parla a questo proposito di una vera e propria ‘impalcatura culturale dello stupro’, un sistema che rende ‘comprensibile’ – e quindi tollerabile – che un uomo agisca in modo predatorio, soprattutto sul piano sessuale. Nella nostra società, la sessualità maschile è rappresentata come attiva, impetuosa, quasi incontenibile: se non riesce ad avere ciò che vuole con le buone, lo ottiene con la forza. La sessualità femminile, invece, è vista come passiva e ricettiva. Questa costruzione contribuisce a normalizzare certi atteggiamenti, a chiudere un occhio davanti alle accuse e a generare una solidarietà implicita nei confronti degli uomini. Viviamo in una società che, apparentemente, condanna lo stupro, ma che nei fatti lo sostiene ancora, attraverso logiche culturali e modelli educativi che continuano a definire la maschilità come dominio e la femminilità come subordinazione.”

La questione, in questi come in altri casi, non è la pena chiesta o inflitta. Credere che l’approccio punitivo e carcerario risolva la questione della violenza sistemica è uno specchietto per le allodole che serve solo a perpetrare e mantenere lo status quo fingendo di aver fatto qualcosa. Riconoscere la problematicità di quanto dichiarato in quell’aula di tribunale, non normalizzare quelle parole, è il primo passo per provare a riconoscere e superare la cultura dello stupro. Il fatto che quelle dichiarazioni siano state fatte con tutte le migliori intenzioni, le rendono solo più pericolose. Chiudo questa newsletter con le parole di Montella: “Le parole hanno un peso e un significato. Riconoscersi in un privilegio specifico è alla base della possibilità di costruire non solo narrazioni differenti, ma una cultura altra, che superi la logica propria della cultura dello stupro”.

Mi piacerebbe sapere cosa pensi del contenuto di questa settimana. Se lo ritieni importante, aiutami a diffondere questo lavoro: non solo condividendolo, ma anche parlandone a scuola, in famiglia, con gli amici, sul posto di lavoro. Se hai segnalazioni da fare, o pensi ci sia un argomento su cui è necessario fare luce, scrivimi.

Ci vediamo alla prossima puntata. Ti ricordo che ‘Streghe’ non ha un appuntamento fisso: esce quando serve. E dove serve, noi ci siamo.

Ciao!

Natascia Grbic

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Femminicidi, misoginia e cultura dello stupro dominano la nostra società, intrisa di odio verso le donne. La "caccia alle streghe" non è un fenomeno così lontano nel tempo, perché tra istituzioni indifferenti e media inadeguati o complici, gli uomini continuano ad ammazzare le donne quando non riescono a dominarle.  È ora di accendere i nostri fuochi e indirizzarli dove non si voleva guardare: Streghe è il nostro Osservatorio sul patriarcato, il nostro impegno per cambiare il modo in cui si raccontano le storie alla base di una società costruita a misura di uomo.

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