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“Siamo tutti migranti” per Mohsin Hamid: in Exit West una storia d’amore e migrazioni

Vivere in una città sotto assedio, prima, ed essere costretti a migrare in Paesi sconosciuti: nel mondo di Nadia e Saeed le uniche salvezze sono porte magiche e i propri sentimenti, raccontati dalla penna di Mohsin Hamid in “Exit West”
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A cura di Francesco Raiola
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Un particolare della copertina di Exit West
Un particolare della copertina di Exit West

Vista l'impossibilità di esperire tutta la complessità della realtà che ci circonda, cerchiamo di aiutarci quanto più possibile con l'arte, senza dubbio un modo per guardare al di là di ciò che è visibile ai nostri occhi. Leggere, ad esempio, è un modo per fare esperienza di linguaggi e modi di vivere che abbiamo difficoltà a conoscere nella vita di tutti i giorni e i buoni libri ci danno gli strumenti per dare forma alla complessità del mondo, in alcuni casi persino comprenderlo, immedesimarsi in altre storie provando empatia per il prossimo e familiarizzare con storie lontane.

Perché questo preambolo? Perché a volte capita di leggere un libro e trovarci dentro un'epifania, una chiave per interpretare il mondo e se siamo fortunati, per interpretare anche l'attualità. Si sono spese molte parole per Exit West, il libro di Mohsin Hamid, pubblicato da Einaudi qualche mese fa. Un libro attorno a cui si è creata una sorta di patina mitica, un hype, addirittura, se volessimo usare un termine che avrebbe poco a che fare sia con l'autore che con la storia in sé. E talvolta questo chiacchierare attorno a un libro ha il vantaggio di portarlo all'attenzione di molti, ma anche, implicitamente, la possibilità di creare una barriera snob ("Tutti ne parlano, io non lo leggo").

Il racconto di una quotidianità

Basterebbe, però, immergersi nella storia che racconta o qualche intervista dello stesso Hamid per fare un passo indietro nel caso fossimo di quelli che si preoccupa delle voci delle persone. Quella che lo scrittore pachistano mette in scena una realtà nella quale viviamo tutti i giorni, immersi come siamo nella narrazione sulle migrazioni. Una narrazione che ci arriva, però, di seconda o terza mano, dai social, dalla tv, dalle radio, troppo veloce, troppo confusa, per nulla nitida. Hamid, innanzitutto, fa la cosa più semplice al mondo e parte dall'incontro di un ragazzo e di una ragazza in una città sull'orlo di una guerra civile. Difficile non vederci la Siria, benché questa non sia mai citata, ma poco importa quale sia, quello che lo scrittore fa è cercare di raccontare quello che per tantissime persone è una tragica quotidianità. Nadia e Saeed, infatti, si conoscono nella prima pagina del libro, mentre lavorano, e vivono, ancora in una città semi libera, che in lontananza, però, ha i primi sintomi di quello che accadrà da lì a breve.

La storia di Exit West

Hamid ci accompagna per mano nella vita di questi due ragazzi, immergendoci, quasi fossimo al loro fianco, in un'escalation bellica che pian piano limita le libertà di chi vive in quella città, modificando vite e rapporti, seminando morte e paura e soprattutto la fuga. Da quel luogo, infatti, si può fuggire, è una storia che conosciamo, è la storia che forse più di tutte, più delle guerre, ci è familiare, a causa degli sbarchi che ogni giorno guardiamo mediata dallo schermo di una tv o di un pc. Ma Hamid non vuole il gioco facile, non vuole raccontare il viaggio dei suoi protagonisti, non è quello ciò su cui puntare l'attenzione, quanto probabilmente in che modo si costruiscono e modificano alcuni rapporti e così sceglie di abolire le barche e il mare, preferendogli una trovata fantascientifica: le porte.

Il mare non è altro che una serie di porte che da quella città portano in varie parti del mondo, dall'Australia agli Usa, passando per Londra dove i protagonisti si ritroveranno dopo una parentesi a Mykonos, dando allo scrittore la possibilità di mescolare il racconto di un rapporto d'amore a una situazione estrema, come quella dei migranti che si ritrovano, senza differenze di nazionalità, lingue e culture, in alcune case occupate, novelli campi profughi in miniatura dove gli equilibri sono sempre instabili: quelli tra i migranti, quelli tra loro e le autorità e quelli tra Nadia e Saeed che, nel frattempo, si avvicinerà sempre più alla religione, conoscenza che culminerà con l'arrivo a San Francisco. Sono tanti gli spunti che nascono leggendo le pagine dello scrittore pachistano, che alla tecnologia fantascientifica del teletrasporto affianca quella più vicina dei cellulari, che sono l'unico elemento che i due hanno per comunicare tra loro e con gli altri, soprattutto quando la guerra entrerà nelle loro case o si troveranno in una città non loro, ma il cellulare, a un certo punto, diventa anche, semplicemente, l'unica possibilità di illuminazione, in una città allo sfascio.

Non esiste "purezza" nel mondo raccontato da Hamid ("L'essere o meno nativi era questione di punti di vista"), né vergogna a senso unico ("Si vergognavano, e non sapevano ancora che la vergogna era una sensazione condivisa da tutti i profughi, e che quindi lì nessuno di vergognava di provare vergogna"), ma esiste la vita, quella che fa resistere al dolore e alla perdita, quella che impedisce la fuga continua ("a un certo punto anche un animale braccato si ferma, esausto, e attende il proprio fato, anche solo per un istante"), quella che cerca la dignità anche nei piccoli gesti, come una doccia.

L'equilibrio tra tono e storia

Da parte di Hamid, però, non c'è alcuna velleità di fare alcun tipo di lezione al lettore, non accetta il rischio di alzarsi su un piedistallo a spiegare cosa sia bene e cosa sia male, ma segue i suoi personaggi, li fa evolvere, fa evolvere le situazioni (l'escalation della guerra, ad esempio) e riesce a farlo con una lingua che non è mai sopra le righe, che restituisce un tono pacato (grazie anche alla traduzione di Norman Gobetti), che acquista ancora più forza a fronte della storia che racconta: "Tutti emigriamo, anche se restiamo nella stessa casa per tutta la vita, perché non possiamo evitarlo. Siamo tutti migranti attraverso il tempo".

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