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L’Italia è sempre più povera e piena di diseguaglianze, lo dice l’Istat

Salari fermi, precariato al top, forti disuguaglianze in tema di povertà tra nord e sud, potere d’acquisto mai così basso da 20 anni, sommerso alle stelle. Sono solo alcuni dei dati (nefasti) del rapporto annuale dell’Istituto Nazionale di Ricerca.
A cura di Biagio Chiariello
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L Italia sempre piu povera e piena di diseguaglianze lo dice l'Istat

Retribuzioni contrattuali bloccate, precariato al top, società rigida, forti disuguaglianze in tema di povertà tra nord e sud, potere d'acquisto mai così basso da quasi 20 anni, sommerso alle stelle. E potremmo anche continuare nel descrivere i dati diffusi nel rapporto annuale dell'Istituto Nazionale di Statistica, riassumibili in unico periodo: da un punto visto economico, sociale e occupazionale, l'Italia è sempre più lontana dagli standard europei. Non che non ne fossimo già a conoscenza, ma l'Istat sbatte in faccia agli italiani una verità quanto mai cruda. L'indagine statistica mette subito in rilievo il «difficile passaggio per l'economia italiana», che a ben vedere, è il linea con il rallentamento del ciclo economico, finanziario e produttivo internazionale. Ma in particolare, in Italia «l'incertezza che segna l'attuale fase ciclica e la capacità produttiva inutilizzata costituiscono un fattore di freno alle decisioni di investimento delle imprese, sulle quali – si sottolinea – pesano anche le difficoltà incontrate nell'accesso al credito bancario, soprattutto per quelle di piccola e media dimensione».

L'Istat prende in considerazione il segmento 1992-2011, 19 anni in cui:

 l’economia italiana è cresciuta in termini reali a un tasso medio annuo dello 0,9%. La sua performance è stata migliore nel periodo 1992-2000 (+1,8 in media annua), mentre tra il 2000 e il 2011, la crescita media annua rallenta, attestandosi allo 0,4%. Con un punto percentuale in meno all’anno, il nostro Paese si colloca in ultima posizione tra i 27 stati membri, con un consistente distacco rispetto sia ai paesi dell’Eurozona sia a quelli dell’Unione nel suo complesso.

I problemi dell'economia del Belpaese si riflettono sui lavoratori. Innanzitutto i salari, fermi ad oltre 20 anni fa. «Tra il 1993 e il 2011 – spiega l'Istat – le retribuzioni contrattuali in termini reali sono rimaste ferme, mentre per quelle di fatto si rileva una crescita di quattro decimi di punto l'anno». Un dato significativo riguarda i disoccupati che pur desiderando un posto di lavoro hanno deciso di rinunciarci per sfiducia.  L'Istat segnala che «lo scoraggiamento e l'attesa degli esiti di passate azioni di ricerca sono state le principali motivazioni della mancata ricerca di una occupazione, segnalate da oltre 1 milione e 800 mila inattivi». Cresce anche il numero degli occupati “aticipi”, cioè coloro che hanno contratti a tempo determinato, che sono collaboratori o prestatori d’opera occasionale. «Ha iniziato con un lavoro atipico il 44,6 per cento dei nati dagli anni ’80 in poi – si legge nel rapporto annuale – Il primo lavoro è stato atipico nel 31,1 per cento dei casi per la generazione degli anni ’70; nel 23,2 per cento dei casi per i nati negli anni ’60 e in circa un sesto dei casi tra le generazioni precedenti».

Ma l'Italia è anche il Paese dell'economia sommersa, stimata nel 2008 in una forbice tra 255 e 275 miliardi di euro, pari al 16,3-17,5% del Pil, e della disoccupazione giovanile. Innanzitutto aumenta sempre più il numero di giovani che restano in casa: il 41,9% degli individui tra 25 e 34 anni vive ancora in famiglia contro il 33,2% del 1993-1994. Il 45% dichiara di restare in famiglia perché non ha un'occupazione e non riesce a mantenersi da solo. Un dato che si sposa con quello dei precari, mai stati così numerosi tra i lavoratori dipendenti dal 1993. Negli ultimi vent'anni sono aumentati di quasi il 50%.

E l'allarme si estende anche alle famiglie, sempre più povere e con un potere di acquisto pro capite in calo e inferiore del 4% rispetto a 20 anni. «Complessivamente –  si legge nel rapporto dell'Istat – dall'inizio della crisi economica, dal 2008, le famiglie hanno visto crescere del 2,1% il reddito disponibile con una riduzione del potere di acquisto di circa il 5%». In pratica, il reddito disponibile per le famiglie è sceso è sceso ai livelli di dieci anni fa. Negli ultimi quattro anni c'è stata una discesa che ha portato  Il reddito pro capite ad essere inferiore 7% rispetto al 2007, sottolinea il presidente dell'Istat Enrico Giovannini commentando i numeri del Rapporto.  «In quattro anni – ha aggiunto Giovannini – la perdita in termini reali risulta pari a 1.300 euro a testa, mentre la propensione al risparmio delle famiglie è passata dal 12,6% all'8,8%».

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C'è poi il dato sulla forte disuguaglianze in tema di povertà tra nord e sud: nelle regioni del Meridione quasi una famiglia su 4 è «povera» e il 68,2% delle persone povere vive nel Mezzogiorno. In realtà l'Istat fa notare che «la percentuale di famiglie che si trovano al di sotto della soglia minima di spesa per consumi si è mantenuta intorno al 10-11%». Il divario territoriale è però piuttosto ampio: «Al Sud sono povere 23 famiglie su 100, al Nord 4,9 (per una famiglia di due componenti una spesa di 992 euro mensili nel 2010)». E nel Mezzogiorno c'è anche una maggiore gravità del disagio. L'intensità della povertà raggiunge il 21,5% contro il 18,4% osservato al Nord (la spesa media equivalente tra le famiglie povere del sud è pari a 779 euro contro gli 810 e i 793 euro rilevati tra le famiglie del Nord e del centro).

Un altro fattore di diseguaglianza significativo, sta nella bassa «fluidità sociale», e «la classe sociale dei genitori continua a condizionare fortemente il destino dei figli». L'esclusione sociale sembra manifestarsi già a scuola:  tra i nati negli anni '80 si è iscritto all' università il 61,9% dei figli delle classi agiate e solo il 20,3% di figli di operai. Allo stesso tempo,  la quota di studenti che riesce a laurearsi è molto diversa tra le classi: «si va dal 43% dei figli della borghesia nella generazione dei nati nel periodo 1970-1979 al solo 10% di quelli della classe operaia». E' molto raro- secondo l'istituto di statistica – assistere a «spostamenti tra classi sociali se distanti. Solo l'8,5% di chi ha un padre operaio riesce ad accedere a professioni apicali, quali dirigente, imprenditore o libero professionista».

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