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Opinioni

Non di sole banche vive il credito

Mentre le prospettive per le banche italiane ed europee per i prossimi anni restano a dir poco precarie, dagli Usa vanno emergendo nuovi modelli di finanziamento per le imprese e le famiglei più meritevoli.
A cura di Luca Spoldi
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Mussari - Fornero

Dalle banche nessuna buona nuova. Trovare di questi tempi notizie positive per le banche europee è come pretendere di vedere il governo italiano concretizzare i propri accorati auspici per misure a favore della crescita (puntualmente rimandate a un futuro in cui, chissà, o qualche altro paese tornerà a crescere e si innamorerà del “made in Italy” o gli evasori fiscali si pentiranno in massa pagando le tasse sui 180 miliardi di euro di “nero” che ogni anno mediamente si realizza in Italia o San Francesco, patrono della nazione, farà un miracolo dei suoi). Di certo non è una bella notizia quella che è giunta dalla Spagna, dove a fine gennaio la percentuale di prestiti in sofferenza (“bad loans”) è salita al 7,91% del totale degli attivi del sistema creditizio iberico, visto che si tratta del livello più elevato mai toccato dal 1994 ad oggi e che il dato si confronta con una percentuale inferiore all’1% registrata nel 2007 prima dell’esplosione della crisi economico-finanziaria mondiale e della successiva crisi del debito sovrano europeo. Né è molto rassicurante che gli analisti di Deutsche Bank (non proprio una banchetta di provincia qualsiasi ma il principale istituto di credito tedesco), secondo cui il nuovo rialzo dei Cds (Credit default swap, il costo di assicurarsi contro il rischio di fallimento di un emittente) in tutta Europa non costituisce un segnale positivo, temano che l’Europa possa sperimentare da qui ai prossimi cinque anni una crisi peggiore di quella già vista finora se anche solo “vagamente” qualcuno degli ipotetici default (un “bis” della Grecia o situazioni analoghe a quelle sperimentate nelle scorse settimane da Atene per paesi quali Irlanda, Portogallo o Spagna, per non dire l’Italia) dovesse trasformarsi in una ristrutturazione del debito sovrano. In più la Bce pur avendo evitato con le sue operazioni di rifinanziamento a lungo termine che il mercato del credito si inaridisse completamente non può da sola risolvere il problema della fiducia, ossia della credibilità dei debitori agli occhi dei bondholder attuali e futuri oltre che dei potenziali finanziatori di nuove iniziative industriali. Tutte cose, si badi, note da tempo, ma di cui periodicamente i mercati tendono a scordarsi accendendosi di speranza per qualche segnale positivo salvo poi ripiombare nei consueti timori al primo stornir di fronde.

Fmi: banche sensibili a rischi su crediti sovrani e crescita. Naturalmente l’alternarsi di stati se non euforici più rilassati a nuovi timori finisce col produrre effetti non indifferenti per l’economia reale: se gli investitori più “coraggiosi” e capaci riescono periodicamente a recuperare parte delle perdite accumulate in precedenza con operazioni di trading sui titoli o sfruttando la differenza di tassi tra il costo della liquidità fornita dalla Bce e il rendimento dei titoli di stato con operazioni di “carry trade”, l’erogazione di nuovi finanziamenti a imprese e famiglie resta una buona intenzione (di cui son solitamente lastricate le strade dell’inferno, anche di quello fiscale e creditizio)  che non si traduce in realtà, anzi in Italia vi sono ulteriori segnali di stretta del credito che rischiano di durare almeno sino a giugno, quando alcune tra le nostre maggiori banche come Mps, Banco Popolare e Ubi Banca capiranno se potranno evitare nuovi aumenti di capitale o se dovranno farvi ricorso su input delle autorità di settore nazionali ed europee. Del resto non si può sperare che aziende pro-cicliche come le banche (che dunque tendono ad adeguare la propria attività all’attività economica del paese in cui operano, fornendo maggiore credito quando l’economia cresce e restringendolo quando frena) cambino pelle all’improvviso, avviando una poderosa azione anticiclica che compensi il peso delle manovre di “rigore fiscale” varate dai governi dei “periferici” di Eurolandia del Sud Europa su pressione della Germania e dei “virtuosi” del Nord Europa. Secondo uno studio del Fondo monetario internazionale (Fmi)  condotto sui titoli di 37 istituti europei dal 2006 al 2011, del resto, le banche (o meglio il management delle banche) avrebbero tutto da perderci visto che l’andamento in borsa dei loro titoli è sensibile maggiormente agli indicatori del rischio sovrano e dell’attività economica che non ad altri. In particolare sarebbero i Cds di Belgio, Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna e i relativi indici Pmi (dei direttori acquisti) ad avere impattato maggiormente sulle quotazioni degli istituti di questi paesi nel periodo esaminato dallo studio, mentre la volatilità (misurata dall’indice Vix) e le condizioni di finanziamento (misurate tramite gli spread tra l’Euribor e i rendimenti offerti dai bond bancari) sembrano aver avuto un impatto più contenuto nonostante l’esplodere della crisi seguita al fallimento di Lehman Brothers e poi alla crisi del debito sovrano europeo.

Urge ampliare i canali di accesso al credito. A questo punto è semmai del tutto evidente che sarebbe opportuno, strategicamente parlando, non solo rafforzare il canale bancario ma anche rendere più accessibili canali alternativi per il finanziamento delle aziende più meritevoli. Qualche segnale all’estero lo si nota da tempo: accanto a strumenti consolidati come il venture capital o i fondi di private equity, in Italia ancora molto poco presenti sia come numero di operatori sia come operazioni seguite e importi erogati (nel corso del 2011 nel mercato italiano del private equity e venture capital sono state registrate, secondo i dati di Aifi, 326 nuove operazioni, per un controvalore complessivo pari a 3.583 milioni di euro, con una crescita del 46% rispetto al 2010, ovvero del 12% per quanto riguarda il numero di operazioni) rispetto a mercati più evoluti come gli Stati Uniti (in cui nel solo primo trimestre del 2012 42 nuovi fondi di venture capital sono riusciti a raccogliere nuovi capitali per 4,87 miliardi di dollari, rispetto ai 46 nuovi fondi partiti nei primi tre mesi del 2011 con 7,55 miliardi di dollari di raccolta). Accanto a questi strumenti, da anni sono sorti all’estero ulteriori figure, dai business angel (alcuni dei quali presenti anche nel Belpaese) a comunità finanziarie online come Lendingclub.com che riuniscono soggetti affidabili (solitamente privati) in cerca di prestiti e investitori che con tutte le tutele del caso sono pronti a forni glieli in un modo più veloce e meno costoso del tradizionale sistema bancario. Certo in questo caso le somme di cui si parla sono ancora modeste (in cinque anni sono stati concessi finanziamenti per poco più di 600 milioni di dollari, mentre sono state rifiutate richieste per oltre 6 miliardi) e per la maggior parte le somme così ottenute sono state utilizzate per rimborsare debiti con emittenti di carte di credito e altri soggetti operanti nel credito al consumo, tuttavia anche questo potrebbe col passare degli anni diventare un interessante canale alternativo al classico credito bancario, insieme ad altri fenomeni come il crowdfunding. Chissà quando vedremo simili progetti decollare anche in Italia? Personalmente spero il più presto possibile, ritenendo che anche dall’arrivo di simili concorrenti le banche italiane non potranno che trarre uno stimolo in più per cercare di offrire finalmente servizi competitivi sia in termini di qualità sia di costo rispetto ai loro maggiori concorrenti perlomeno europei.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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