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“L’amore ai tempi del colera” compie trent’anni: un romanzo che non invecchia

Sono passati trent’anni da quando Gabriel Garcia Márquez pubblicava “L’amore ai tempi del colera”: il libro è entrato nell’immaginario collettivo come il simbolo del racconto d’amore per eccellenza, ma è molto di più. Márquez ha creato luoghi e personaggi che ancora oggi affascinano chi legge i suoi racconti. Per questo torniamo a raccontare di Florentino e la sua donna, dei luoghi e dei tempi del colera, anche attraverso le frasi che restano inevitabilmente scolpite nella memoria di chi, trent’anni fa come adesso, legge questo capolavoro di Márquez.
A cura di Federica D'Alfonso
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Un amore lungo “cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese”, quello raccontato da Gabriel Garcia Márquez ai tempi del colera. Uno dei libri più affascinanti dell'autore colombiano, per le immagini che ha saputo descrivere e le emozioni che sa trasmettere ancora oggi: se "Cent'anni di solitudine" aveva parlato della politica e della contemporaneità attraverso il sogno di un romanzo lungo sette generazioni, "L'amore ai tempi del colera" è il racconto di una vita malata, disperatamente malata. È il 1985, e il libro arriva dopo un premio Nobel per la Letteratura e una vita spesa non solo per la scrittura, ma anche per il proprio Paese. Anche se le atmosfere raccontate da Márquez appaiono rarefatte, collocate fuori dal tempo e dallo spazio, quasi che le immagini arrivino sfocate ai nostri occhi a causa dell'arsura dei Caraibi, di quelle storie si può parlare ancora oggi.

Il Sud America senza tempo e la magia della realtà

Chi non è mai stato il quei luoghi ma ha letto Márquez, vede inevitabilmente il Sud America con i suoi occhi. La sua scrittura è talmente forte che sembra quasi di sentire la puzza delle stanze dei bordelli o l'odore umido del fiume:

Non era immaginabile la quantità di cose che lasciavano gli uomini dopo l'amore. Lasciavano vomiti e lacrime, il che le sembrava comprensibile, ma lasciavano pure molti enigmi dell'intimità: pozze di sangue, impiastri di escrementi, occhi di vetro, orologi d'oro, dentiere, reliquiari con riccioli dorati, lettere d'amore, di affari, di condoglianze: lettere di tutto. Qualcuno tornava a cercare le sue cose perdute, ma per la maggior parte rimanevano lì, e Lotario Thugut le metteva sottochiave, pensando che prima o poi quel palazzo caduto in disgrazia, con le migliaia di oggetti personali dimenticati, sarebbe diventato un museo dell'amore.

Né si possono dimenticare personaggi come Josè Arcadio Buendia o Santiago Nasar, personaggi che oltre a raccontare storie affascinanti sono parte della Storia stessa: perché mai nessun libro può essere totalmente slegato dalla realtà che lo ispira, soprattutto quelli a metà fra favola e sogno di Márquez. L'elemento forse più affascinante della sua scrittura è l'uso che riesce a fare del tempo, quasi fosse argilla: i suoi romanzi sono costruiti su di esso, su di un tempo che è contemporaneamente passato e presente che anticipa il futuro, ma anche assenza di temporalità e immobilità nell'unico istante del racconto. Caratteristica peculiare di altri scrittori come Jorge Luis Borges sopra tutti, o il Bulgakov della Mosca degli anni Trenta, o ancora l'Isabel Allende della Casa degli Spiriti o il Milan Kundera che racconta Praga: quest'uso del tempo ha fatto nascere una vera e propria corrente letteraria, quella definita del "realismo magico". Sembra quasi un controsenso, ma a leggerlo, si ha proprio questa sensazione, di essere a metà fra realtà e magia: la magia non fa altro che camuffare la realtà, per renderla, forse, meno riconoscibile agli occhi di chi non sa accettarla.

L'amore come malattia

La copertina del libro
La copertina del libro

L’amore descritto da Márquez è effettivamente vissuto ai tempi del colera, ambientato in un paese dei Caraibi nel XIX secolo, in una zona in cui la malattia è endemica da decenni e sta lì, pronta ad uccidere. Ma la malattia è anche un'occasione per costruire un parallelismo fra il morbo e il sentimento: il colera non è altro che l'amore stesso, che si manifesta esattamente con gli stessi sintomi di un'epidemia. Può restare nascosto per anni, non venire riconosciuto o sonnecchiare fra le pieghe delle lenzuola sgualcite, ma sopravvive a tutto. Il caldo lo fa crescere, la privazione lo fortifica, e il ricordo lo proietta avanti nel futuro, in un futuro che cinquant'anni dopo, diventa possibile.

Fino ad allora l'aveva sorretto la finzione che il mondo fosse quello che passava, passavano i costumi, la moda: tutto meno lei. Ma quella sera vide per la prima volta in modo consapevole come stesse passando la vita di Fermina Daza, e come passasse la sua stessa vita, mentre lui non faceva altro che aspettare.

Fiorentino Ariza, il protagonista, è descritto perennemente come un uomo malinconico; ama una cosa sola più della poesia: Fermina.

Gli sembrava così bella, così seducente, così diversa dalla gente comune, che non capiva perché nessuno rimanesse frastornato come lui al rumore ritmico dei suoi tacchi sul selciato della via, né si sconvolgessero i cuori con l'aria dei sospiri dei suoi falpalà, né impazzissero tutti d'amore al vento della sua treccia, al volo delle sue mani, all'oro del suo ridere.

Il padre della ragazza non approva l’unione e la giovane viene data in sposa ad un ricco medico della città. Fin qui, una storia come tante, che abbiamo sentito più e più volte, anche nella realtà magari. L'elemento magico, forse irreale, che subentra ad un certo punto nella storia è la speranza. L'attesa paziente di un uomo che, nonostante le numerose amanti che accumulerà negli anni, 622 donne appuntate su di un taccuino, non dimenticherà mai il suo unico, vero amore. Un elemento nuovo nella poetica di Gabo, solitamente così malinconico e crudo, a tratti, nel raccontare le sue storie: l'attesa si trasforma ad un certo punto in impazienza, in rabbia, in delusione, e tutte queste emozioni filtrano attraverso le pagine perché non si può credere, fino all'ultimo, che l'amore arrivi ad essere perfino più letale del colera.

Lei gli domandò in quei giorni se era vero, come dicevano le canzoni, che l'amore poteva tutto. – È vero – le rispose lui – ma farai bene a non crederci.

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