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Una torcia frontale illumina il sentiero scavato tra i cespugli bassi dell'isola di Nonsuch. Intorno, solo il vento forte dell'Atlantico e il suono delle onde che si infrangono sulla costa rocciosa. Una ricercatrice si china davanti a uno dei nidi artificiali sotterranei, solleva il coperchio e sorride. Al suo interno, rannicchiato su se stesso, c'è un pullo grigio, poco più di una palla di piume soffice, nato da poche settimane. È un pullo di cahow – come lo chiamano da queste parti -, il petrello delle Bermuda.
È notte fonda sull'oceano Atlantico, ma per questo uccello marino in serio pericolo di estinzione è il momento di massima attività. Da qualche parte sopra le onde, uno dei due genitori è in volo ormai da giorni, mentre plana sopra l'acqua senza quasi mai sbattere le ali, cercando di intercettare piccole prede che affiorano in superficie nel buio della notte. L'altro genitore è invece rimasto nel nido, in attesa e a digiuno, per covare e proteggere il suo unico piccolo della stagione riproduttiva.
"L'idea che questa specie sia riuscita a sopravvivere per secoli senza che nessuno la vedesse, per poi rispuntare nel secolo scorso solo per tornare a lottare per esistere, ha qualcosa di profondamente simbolico", racconta Letizia Campioni, ornitologa e ricercatrice della Estación Biológica de Doñana – CSIC, a Siviglia, che da anni studia e collabora a proteggere questa specie. "Ma oggi sappiamo che le minacce non si fermano sulla terra ferma. I pericoli sono anche in mare e, ancora una volta, la colpa è delle attività umane che lo stanno trasformando".
Questa è la storia di un uccello marino tornato indietro dall'estinzione e delle persone che ogni giorno cercano di scongiurare che scompaia di nuovo, questa volta per sempre.
Il ritorno dall'estinzione del cahow

Il petrello delle Bermuda (Pterodroma cahow) è uno degli uccelli marini più rari al mondo. Endemico dell'Atlantico occidentale, nidifica esclusivamente su cinque isolotti all'interno della Castle Harbour Reserve, nel nord-est dell'arcipelago delle Bermuda, territorio d'oltremare britannico a circa un migliaio di chilometri a est della costa degli Stati Uniti. Per oltre tre secoli, dal XVII al XX secolo, è stato creduto estinto per sempre. Le cause? L'arrivo dell’essere umano e delle tante specie aliene che porta sempre con sé sulle isole – ratti, gatti, cani – e la distruzione del suo habitat.
Poi, dopo una serie di avvistamenti mai confermati e alcuni uccelli morti trovati ai piedi di un faro, il 28 gennaio 1951, l'ornitologo americano Robert Cushman Murphy, il naturalista delle Bermuda Louis L. Mowbray e un ragazzo bermudiano di 15 anni, David B. Wingate, scoprirono finalmente alcuni nidi nascosti in alcune cavità rocciose. Il petrello era stato ritrovato e subito si parlò di "specie Lazzaro", un animale tornato indietro dalla "morte”". All'epoca, tuttavia, restavano appena 18 coppie riproduttive.

La "resurrezione" non bastò a salvare definitivamente la specie e, negli anni 50 e 60, la popolazione andò incontro a un nuovo collasso, che coincise con l'uso massiccio del DDT in agricoltura. Le uova non si schiudevano più. I gusci si assottigliavano, le concentrazioni di pesticidi nei tessuti degli adulti crescevano. Anche sulle isole più remote del mondo, anche negli oceani apparentemente incontaminati, l'impronta chimica dell'umanità si faceva sentire e la "primavera silenziosa" denunciata da Rachel Carson stava arrivando anche alle Bermuda.
Un recupero lento, ma possibile

Da allora, la strada per salvare il cahow è stata lunga e accidentata. Nel frattempo, David Wingate e a partire dal 2000 Jeremy Madeiros sono diventati i principali ambasciatori e difensori di questa specie e grazie anche al lavoro del Dipartimento dell'Ambiente e delle Risorse Naturali delle Bermuda il numero di coppie riproduttive è lentamente cresciuto, passando da 18 a 165 nell'arco di oltre sessant'anni. Tuttavia, il pericolo non è affatto scampato, perché per questi petrelli il tempo scorre molto più lentamente.
"Depongono un solo uovo all'anno e servono 4-5 anni prima che un giovane formi una coppia stabile e riesca a portare a termine con successo la riproduzione", spiega Letizia Campioni. "Questo significa che anche in condizioni ideali, la crescita della popolazione è estremamente lenta". A rallentare il recupero contribuisce anche la scarsità di spazi adatti alla nidificazione: isole piccole, fragili, esposte agli uragani e all'erosione. I nidi artificiali in cemento sono stati costruiti proprio per far fronte a queste minacce, ma la vera sfida è proteggere ciò che resta del suo habitat naturale.

"Per anni, gli sforzi si sono concentrati soprattutto sulle aree di riproduzione. Ma dal 2019, in collaborazione con Jeremy Madeiros abbiamo cominciato a guardare altrove, all'oceano che circonda le Bermuda e a quello che accade quando i cahow scompaiono tra le onde per settimane", sottolinea l’ornitologa. Per lungo tempo, proteggere il petrello delle Bermuda ha infatti significato mettere in sicurezza i pochi scogli su cui ancora nidifica e creare una nuova colonia traslocando i pulli sull'isola di Nonsuch, la più protetta di tutte. Ma oggi i ricercatori hanno capito che la vera frontiera della conservazione si trova oltre la linea della costa: in mare aperto, dove questi uccelli trascorrono gran parte della loro vita.
Le minacce invisibili in mare aperto

Dal 2019, due progetti coordinati da Letizia Campioni hanno ampliato notevolmente le conoscenze sull’ecologia e il comportamento del cahow. Grazie a finanziamenti della fondazione Mohamed Bin Zayed Species Conservation Fund e dell'agenzia canadese Environment and Climate Change Canada, Campioni e il suo team hanno seguito gli spostamenti in mare dei petrelli, tracciandone i viaggi attraverso l'Atlantico, analizzando la loro dieta e valutando il livello di contaminazione chimica accumulato.
"Abbiamo scoperto che il petrello è esposto a diversi inquinanti persistenti, come il mercurio e alcuni pesticidi banditi da decenni, incluso il DDT", spiega Campioni. "Le sostanze arrivano attraverso le prede marine di cui si nutre e si accumulano nei tessuti. I risultati dei nostri studi suggeriscono una correlazione diretta tra i livelli di contaminazione e la riduzione del successo di schiusa delle uova”.
I cahow, infatti, si alimentano esclusivamente in mare aperto, spingendosi al largo per migliaia di chilometri durante i cosiddetti viaggi di foraggiamento. Possono restare in volo anche più di due settimane, mentre il partner rimasto al nido cova l'unico uovo deposto. Ma anche nelle zone più remote dell'oceano è arrivata l'impronta dell'essere umano. "Nemmeno l’alto mare è più un rifugio sicuro", dice Campioni. "Gli uccelli marini, come il cahow, sono diventati vere e proprie sentinelle degli oceani. Monitorando il loro stato di salute, possiamo misurare quello degli oceani e capire come il nostro pianeta stia cambiando".
La vita segreta del cahow tra le onde

Uno degli studi più innovativi realizzati sul petrello delle Bermuda è stato pubblicato recentemente rivista Ecology and Evolution. Coordinato dalla stessa Campioni e da Paolo Becciu, ricercatore dello Swiss Ornithological Institute, ha impiegato una combinazione di tecnologie molto avanzate – come nano-GPS, accelerometri e profondimetri – per analizzare nel dettaglio i comportamenti in mare degli uccelli. In questo modo, i ricercatori sono riusciti a seguire quotidianamente otto individui diversi per circa 30 giorni.
I risultati hanno rivelato una strategia di vita estrema, ma incredibilmente efficiente. "Il petrello delle Bermuda è un veleggiatore straordinario", spiega Becciu. "Trascorre oltre il 75% del suo tempo in volo, sfruttando i gradienti del vento per planare sopra le onde senza quasi mai battere le ali. Meno dell'1% del tempo di volo è stato classificato come ‘volo intensivo‘, verosimilmente associato a tecniche di ‘aerial dipping' per catturare le prede a pelo d'acqua".

Questa tecnica di caccia, spiega il ricercatore, consiste nel volo radente sulla superficie del mare, durante il quale il petrello cattura le sue prede – soprattutto pesci lanterna e cefalopodi – che affiorano in superficie durante la notte. "La restante percentuale è stata classificata come volo battuto misto a veleggiato, ovvero un volo a più alto dispendio energetico. Il profondimetro ha inoltre confermato che le immersioni sono estremamente rare e superficiali. Nel 99,99% dei casi non superano i 10 centimetri e solo in rarissimi eventi è stata registrata una profondità massima di appena 1,6 metri per pochi secondi", sottolinea il ricercatore.
Una dieta specializzata che arriva dalle profondità del mare

Queste osservazioni trovano conferma anche nelle analisi genetiche sulle prede che compongono la sua dieta: i petrelli si cibano principalmente di organismi cosiddetti mesopelagici, pesci e calamari che vivono tra i 200 e i 1.000 metri di profondità e risalgono in superficie durante le ore di buio. "Questa sincronizzazione con la migrazione verticale notturna delle prede è cruciale", spiega ancora Becciu. "Ma lo rende anche vulnerabile. Il cahow è molto più attivo di notte e il suo comportamento dipende fortemente dai cicli di luce e dalle condizioni atmosferiche".
Una vulnerabilità che ha implicazioni dirette anche per la sua conservazione. "L'attività notturna rende il petrello particolarmente esposto all'inquinamento luminoso prodotto da navi, piattaforme petrolifere e traffico marittimo", dice il ricercatore. "La luce artificiale può disorientare questi uccelli, aumentare il rischio di collisioni o influenzare il comportamento". Ma non è tutto.

Cambiamenti nei venti oceanici – già realtà in alcune regioni – potrebbero compromettere l'efficacia del volo veleggiato, costringendo gli uccelli a un maggior dispendio energetico. Inoltre, le attività di pesca notturna pongono un ulteriore grande rischio, quello della cattura accidentale negli ami e nelle reti da pesca, il cosiddetto bycatch, una delle principali cause di mortalità per molte specie di uccelli marini, incluse le nostre berte, i "petrelli" del Mediterraneo.
Isolotti fragili e un futuro ancora incerto

A rendere possibile tutto questo lavoro, sottolinea Letizia Campioni, è stata una rete di collaborazioni internazionali: "Abbiamo lavorato con ricercatori e ricercatrici da Canada, Italia, Portogallo e, ovviamente, Bermuda. Fondamentale è stato anche il contributo degli studenti e delle studentesse, che hanno svolto le loro tesi analizzando dati complessi e arricchendo il progetto con nuove idee e prospettive".
Proprio l'approccio interdisciplinare, che fonde ecologia comportamentale, genetica, tecnologia e conservazione, è oggi l'unico modo per affrontare le sfide ambientali del XXI secolo. Nonostante l'aumento del numero di coppie, il cahow resta una specie in serio pericolo. La superficie dell'arcipelago è limitata (circa 5.000 ettari), urbanizzata e soggetta a una forte pressione turistica. Le isole su cui nidifica sono esposte agli uragani, sempre più violenti a causa del riscaldamento globale, e alla naturale erosione delle rocce calcaree.
"Un passo importante è stato fatto con la creazione di nuove colonie su Nonsuch Island, dove si cerca anche di ripristinare la vegetazione autoctona che protegge i nidi dal vento. Ma ogni stagione è una sfida e ogni giovane che riesce a involarsi rappresenta una piccola vittoria contro le avversità", aggiunge la ricercatrice.
Seguire il vento per salvare un custode degli oceani

L'impegno e le attività di ricerca e conservazione non possono quindi fermarsi. Il prossimo passo sarà una nuova campagna di studio prevista per marzo 2026, nell'ambito di un progetto guidato dal ricercatore Francesco Ventura e finanziato dalla NASA. L'obiettivo è studiare come gli uccelli marini utilizzano i venti oceanici per orientarsi e decidere quando e dove muoversi.
"Useremo gli stessi strumenti – GPS, accelerometri – incrociando però i dati biologici con informazioni satellitari su venti e condizioni atmosferiche", anticipa Campioni. "Vogliamo capire quanto incida la spesa energetica del volo sulle scelte comportamentali degli uccelli, e se il cambiamento climatico stia alterando questi delicati equilibri".
Oggi il cahow non è solo una specie simbolo delle Bermuda. È il portavoce di un mondo nascosto, fragile e in rapida trasformazione. Ogni suo volo tra le onde racconta una storia di adattamento e sopravvivenza appesa a un filo. Ogni uovo che si schiude è una piccola speranza in più per il futuro. E come conclude Letizia Campioni, "la sua sopravvivenza dipenderà da quanto riusciremo a conoscere e proteggere non solo le sue isole, ma anche quell'oceano invisibile che lo avvolge ogni notte nel buio".