
SeaWorld ha annunciato la morte di Katina, una delle sue orche più anziane, avvenuta domenica scorsa nel parco acquatico di Orlando, in Florida. Katina aveva quasi 50 anni e, secondo quanto comunicato dalla struttura, le sue condizioni di salute erano peggiorate nelle ultime settimane con l'inizio della fase anziana della sua vita. L'orca era stata catturato in Islanda quando aveva circa 2 anni ed morta circondata dai veterinari e dai caregiver che si prendevano cura di lei da decenni.
Per il parco, era un'orca "dal carattere giocoso", famosa per la sua velocità quando nuotava e per la tendenza a tirare fuori la lingua di fronte al pubblico. Nel suo post pubblicato sui social, SeaWorld Orlando ha parlato di una lunga vita trascorsa "educando e ispirando" il pubblico sulle orche, ma dietro queste dichiarazioni resta una domanda inevitabile: che cosa significa vivere quasi mezzo secolo in una piccola vasca per un animale che, in natura, nuota tra gli oceani e costruisce relazioni sociali complesse e che durano per tutta la vita?
La storia dell'orca Katina: iniziata in mare e finita in un piccola vasca
La storia di Katina comincia lontano dalla Florida. Nel 1978 fu catturata al largo dell'Islanda quando aveva solo circa due anni. Fu strappata al suo gruppo familiare – il pod, cioè la comunità stabile di orche che vive e caccia insieme – e trasferita negli Stati Uniti e da allora non ha più rivisto l'oceano aperto. Per anni Katina è stata spostata tra diversi parchi marini, fino a diventare una delle orche simbolo di SeaWorld, nonché la prima della storia a riprodursi con successo in cattività nel 1985.
Da allora è stata utilizzata come una sorta di fattrice, partorendo forzatamente, uno dopo l'altro, ben sette figli (altro record), quattro dei quali sono già morti. In cattività, la riproduzione è spesso "gestita" artificialmente, senza che gli animali possano scegliere partner o tempi, con conseguenze fisiche e psicologiche difficili da ignorare per animali così complessi. Naturalmente, non sono mancate le reazioni dal mondo dell'attivismo e delle associazioni per i diritti degli animali.
Le accuse della PETA e il tema della sofferenza in cattività
Sulla morte di Katina è intervenuta duramente PETA, che ha ricordato come fosse una delle ultime orche catturate in natura ancora detenute nei parchi SeaWorld e l'unica rimasta a Orlando. Secondo l'associazione, Katina sarebbe la 46ª orca morta sotto la gestione di SeaWorld. In un comunicato, la presidente di PETA, Tracy Reiman, ha parlato di "celle di cemento" e di una vita segnata da stress, isolamento e sofferenza fisica.
Tra gli episodi citati c'è anche una grave ferita alla pinna dorsale, causata – secondo l’organizzazione – da altre orche forzatamente costrette a vivere nella stessa vasca nonostante l'incompatibilità. In mare, un'orca può semplicemente nuotare via se ci sono scontri o "litigi", in una piccola vasca, no. Le orche sono del resto tra gli animali più complessi del pianeta e le loro capacità cognitive e le abitudini sociali vengono spesso paragonate a quelle dei grandi primati, esseri umani inclusi.
Vivono in complessi gruppi matriarcali dove nonne, figlie e zie restano insieme per tutta la vita, sviluppano dialetti e tradizioni culturali che possono cambiare tra le popolazioni e persino tra singoli gruppi familiari e in mare nuotano anche centinaia di chilometri ogni giorno. In natura, le femmine possono vivere anche fino a 70-80 anni, mentre in cattività quasi sempre muoiono prematuramente, spesso nei primissimi anni di vita.
Le orche in cattività sono sempre più al centro del dibattito pubblico

La morte di Katina è solo l’ultima in ordine di tempo che ha riacceso il dibattito sulle condizioni di questi cetacei in cattività. Appena sette giorni fa Kshamenk, l'ultima orca in cattività rimasta in Sud America, è morta dopo oltre 30 anni trascorsi in totale solitudine in una piccola vasca di un parco acquatico in Argentina. In Francia, invece, a situazione di Wikie e Keijo, le due orche rimaste nel parco Marineland Antibes, è diventata un vero e proprio caso internazionale.
La struttura ha chiuso al pubblico nel 2024, dopo l'approvazione di una legge che viete la detenzione e gli spettacoli con i cetacei, e le due orche sono da allora in piccole vasche ormai abbandonate, senza una soluzione chiara per il loro futuro. Recentemente, tuttavia, il governo francese ha accettato la proposta del Whale Sanctuary Project di accogliere i due cetacei in un santuario che sorgerà in una baia marina in Canada. Tuttavia, il progetto è ancora in corso e il futuro rimane incerto.
Le storie e le vite di queste orche raccontano però di una crisi decisamente più ampia. I delfinari, i parchi marini e gli spettacoli con gli animali attirano sempre meno visitatori, anche perché cresce costantemente la consapevolezza sul benessere animale. In molti paesi – come in Francia – stanno chiudendo o riconvertendosi, costringendoci a fare i conti con una realtà molto complessa, ma ancora tutta da definire.
Un futuro senza delfinari, ma con molte domande aperte
Dire addio ai parchi marini sarà probabilmente una scelta inevitabile nell'immediato futuro, tuttavia non basta chiudere i cancelli. Le orche e i delfini nati o cresciuti in cattività non possono essere semplicemente liberati in mare, perché non saprebbero cacciare, orientarsi o inserirsi all'interno di gruppi sociali sconosciuti. La sfida principale è immaginare alternative concrete, più etiche e sostenibili, come appunto i santuari costieri per i cetacei.
Queste aree marine protette, recintate, ma naturali, permetterebbero a questi animali di vivere in spazi più grandi, con stimoli ambientali reali e senza essere costretti a esibirsi. È una soluzione incredibilmente costosa e complessa, ma sempre più discussa da scienziati e associazioni.
La storia di Katina, iniziata nell'Atlantico del Nord e finita in una piccola vasca di cemento, ci obbliga a riflettere su cosa significhi davvero "educare" il pubblico mostrando e spettacolarizzando animali selvatici privati della loro libertà e della loro natura. Il modo migliore per onorarla non è tanto ricordare le sue esibizioni, ma usare la sua vita – e la sua morte – per ripensare in maniera radicale il nostro rapporto con orche, delfini e altri grandi e altri animali. Qualcosa che non possiamo più permetterci di rimandare.