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La resistenza al Paxlovid, la pillola anti Covid di Pfizer, sarebbe solo una questione di tempo

Lo afferma il chimico americano Derek Lowe in un articolo del suo blog “In the Pipeline” su Science: “Potrebbe accadere essere adesso, come potrebbe essere già successo”.
A cura di Valeria Aiello
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Si tratterebbe solo di una questione di “quando” e non di “se”: è quanto ritiene il chimico americano Derek Lowes che, in un articolo del suo blog “In the Pipelinepubblicato su Science ha fatto il punto sulla possibilità che il Paxlovid, il farmaco antivirale prodotto da Pfizer e specifico per la cura di Covid-19, possa determinare l’emergere di ceppi virali resistenti al medicinale. Tale rischio “è stato chiaro fin dall’inizio” scrive l’esperto, facendo il punto sulle nuove scoperte relative alle mutazioni che “stanno sicuramente avvenendo in risposta alla terapia”.

La resistenza al Paxlovid, la pillola anti Covid di Pfizer

Anche se ad oggi non esiste alcuna prova dell’emergere di ceppi resistenti al Paxlovid, Lowe suggerisce che “dobbiamo assolutamente aspettarci” che questo possa accadere, o che sia già successo, alla luce di una serie di mutazioni osservate in studi in vitro, di cui diverse riguardano specifiche regioni della proteasi principale del coronavirus Sars-Cov-2, chiamata Mpro, che interagiscono direttamente con il nirmatrelvir, uno dei due principi attivi (insieme al ritonavir) del farmaco anti-Covid. Una nuova ricerca, in particolare, recentemente pubblicata sul Journal of Medicinal Chemistry, ha indicato che alcune di queste mutazioni sono già note da sequenze virali raccolte da infezioni nell’uomo. “Pertanto, sono almeno possibili – evidenzia l’esperto – . Potrebbero infatti già contribuire a uno spettro di attività del Paxlovid tra pazienti che assumono il farmaco”.

In aggiunta al crescente corpo di pubblicazioni e dati sperimentali su questa possibilità, anche un altro studio in preprint su bioXriv condotto da un team di ricerca danese che ha individuato, tra le altre, due specifiche mutazioni (L50F e E166V), mostrando come la loro combinazione possa conferire al virus una resistenza di circa 80 volte nei confronti del nirmatrelvir, insieme a un’elevata capacità riproduttiva rispetto al ceppo originario.

Lowe ha anche sottolineato come nella scheda informativa del Paxlovid (a pagina 28) si rilevi una serie di mutazioni che erano già state osservate durante la sperimentazione clinica” quali più comuni nei pazienti trattati con Paxlovid rispetto al gruppo di controllo. Tra queste, c’è anche la mutazione E166V, che probabilmente influenza il legame del nirmatrelvir, mentre un’altra mutazione, L167E osservata in laboratorio da un team di ricerca belga non è compresa nell’elenco stilato da Pfizer che, ad ogni modo, ha affermato come nessuna delle mutazioni presenti in tale elenco sia stata osservata nei pazienti trattati con Paxlovid che sono stati anche ricoverati in ospedale. “Ciò rende difficile la valutazione del loro significato clinico” ha puntualizzato Lowe.

Allora, a che punto siamo? – riassume l’esperto – . Direi che: (1) stanno sicuramente avvenendo mutazioni nel coronavirus in risposta alla terapia con Paxlovid, (2) che ci sono un certo numero di regioni nella sequenza proteica che potrebbero (in teoria) portare a sequenze virali che sono ancora riproduttivamente idonee ma molto meno colpite da Paxlovid e (3) che un certo numero di potenziali siti di mutazione identificati da questi in vitro sono apparsi anche in mutazioni isolate dal coronavirus di tipo wild-type negli esseri umani, dimostrando che sono fattibili in condizioni del mondo reale. Ma quello che non sappiamo – ancora – è come tutti i punti potrebbero connettersi. Non sappiamo se ci sono mutazioni riproduttive resistenti a Paxlovid che si stanno diffondendo attualmente nella popolazione umana, per esempio. Le prove non ci sono, o forse non ci sono ancora del tutto? Ma dobbiamo assolutamente aspettarci che ciò possa accadere. Potrebbe essere successo ora, potrebbe essere già successo. Vedremo”.

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