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Guerra in Ucraina

Viaggio nella roccaforte nucleare di Putin, dove ci sono 2000 bombe atomiche puntate contro l’Europa

A Murmansk, nell’artico russo, a 200 km dal confine con la Norvegia e la Nato ci sono tutti i sommergibili nucleari e buona parte dei missili russi. Oltre a quelle risorse naturali che da sole valgono il 60% del Pil russo. Reportage dal “posto più caldo del Pianeta”.
A cura di Marzio Mian
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Murmansk – Nella grande piazza detta dei Cinque Cantoni, di fianco al centro commerciale Volna, com’è accaduto nel resto della Russia, anche qui McDonald’s ha chiuso bottega in risposta all’aggressione dell’Ucraina. Era uno dei più pacifici vanti di questa città di trecentomila abitanti, la più grande città artica: una targa in ottone celebra lo spaccio d’hamburger yankee collocato più a Nord del mondo. Per il resto l’orgoglio locale è tutto legato alla guerra. Quella eroica contro Hitler, quando Murmansk fu seconda per bombardamenti nazi solo a Stalingrado, ma riuscì a impedire per tre anni ai panzer di scendere a Leningrado; quella Fredda, senza morti, ma vissuta per decenni h24 nella paranoia dell’allerta nucleare; e ora questa, la guerra di Vladimir Putin, che sulla carta geografica è lontana tremila chilometri a Sud, ma invece si gioca in casa, con la “Z” nel cuore e il dito sul grilletto.

Una pistola alla tempia dell’Occidente

Mi trovo nella penisola di Kola, tra il mare di Barents e il Mar Bianco, nell’Artico russo occidentale, eppure tutto qui gira ora intorno a quel che accade sul Mar Nero. È il posto giusto per capire la portata del conflitto e dell’eventuale escalation, come stare nel backstage e osservare la guerra di Putin dal buco della serratura. In questo paesaggio remotissimo e spietatamente freddo è dove il capo del Cremlino trae la sua forza di ricatto e fonda la sua reale minaccia al mondo, schierando in faccia all’Occidente tra le duemila e le tremila testate nucleari: una pistola puntata letteralmente alla tempia, perché il confine con la Norvegia, e quindi con la Nato, sta a meno di duecento chilometri seguendo la costa a Ovest. Quando Putin il 28 febbraio a Mosca ha ordinato alle forze di deterrenza nucleare d’innescare lo stato d’allerta si rivolgeva ai generali delle 22 basi infrattate nelle baie della penisola di Kola dove sono parcheggiati tutti i sommergibili nucleari russi e dislocati gli hangar di stoccaggio dei missili atomici. Dalla calotta del globo l’America è a un tiro di razzo. E poi la Russia nell’Artico presidia armi in pugno seimila miglia di confine marittimo strategico e soprattutto la sua cassaforte: le immense ricchezze del Grande Nord, sempre più disponibili “grazie” alla crisi climatica, rappresentano quasi il 60 per cento del Pil nazionale, un’assicurazione sulla vita per un Paese grande 56 volte l’Italia, ma con un reddito procapite che è un terzo di quello italiano.

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20mila uomini pronti all’azione

Vengono da qui, dalla base Sputnik, i ventimila uomini delle truppe speciali della Marina che aspettano l’ordine d’entrare in azione a Odessa. Ci sono passato assai vicino con Sasha, una guida che conosce bene la sua regione, la più militarizzata, sorvegliata e segretata del mondo, interdetta non solo agli stranieri, ma anche ai russi di altre regioni se privi di speciali lasciapassare. I compound e le palazzine sono protetti da tank bianchi dotati di camouflage artico, una cittadella fortificata nella tundra. Abbiamo percorso la E105, la strada che attraversa la santabarbara della Russia. Si susseguono i monumenti a celebrare la guerra patriottica. Per Hitler doveva essere una galoppata, aveva scelto le baie profonde e mai gelate del mare di Barents per colpire in due settimane l’Urss da Nord e invece è stato inchiodato dopo soli 25 chilometri, sul fronte tra Titovo e la penisola di Rybačij.

Oltrepassato il fiume Ura, siamo entrati nel piccolo memoriale costruito da un benzinaio sul retro delle pompe: foto e residuati bellici nel mini-museo raccontano un inferno di sangue e ghiaccio tra il ’41 e il ‘44. Sul libro dei visitatori l’ultima dedica era quella di Eugeny, camionista di Kazan: “Grazie ai ragazzi di allora. E grazie ai ragazzi che oggi continuano a combattere i fascisti”. Sulle ultime tre pagine compare più volte la “Z”, il marchio ideologico esibito qui ovunque, anche all’ingresso del monastero cinquecentesco di Peshenga, dove il patriarca Mitrofan il 25 marzo ha tenuto un sermone agli alti ufficiali invocando la “guerra santa contro i satanisti ucraini” e l’eliminazione dei “razkolniki”, gli scismatici di Kiev.

Uno sbarramento filtra i mezzi all’imbocco dell’uscita per Vidyayevo. Al largo della base nucleare, nel Duemila affondò il Kursk, 118 marinai morti, brutto battesimo per il neo-imperialista Putin che rimase per giorni nascosto per la vergogna a Sochi, senza accettare aiuti Nato. Sasha mi diceva che ancora oggi certe notti di bufera i pescatori del mare di Barents orientale sentono le urla di dolore e le imprecazioni delle vedove. Più volte abbiamo visto in lontananza stormi d’elicotteri, e per un tratto siamo stati rallentati da una colonna di mezzi blindati. Sasha mi diceva che vivere in questo angolo di mondo è una strana sensazione: “Siamo i più protetti, ma anche sempre nel mirino. Perennemente al fronte. Ora però senti proprio la puzza della guerra. Si sa che sono arrivate centinaia di bare dall’Ucraina, gli arei atterrano di notte. Le cerimonie si svolgono nelle basi”.

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"Questo diventerà il posto più caldo del Pianeta”

Poi ho attraversato il confine. A Kirkenes, la cittadina portuale norvegese che affaccia sul Mare di Barents occidentale ho rincontrato un caro amico, Thomas Nielsen, l’uomo che conosce palmo a palmo la militarizzazione russa dell’Artico. E ha dato un contenuto ai nomi che mi ero segnato lungo la E 105 : cioè le aree di stoccaggio dei missili balistici nella baia di Okolnaya e in quella di Yagelnaya, le basi di Gadzievo con i sommergibili nucleari della flotta Delta IV di classe “Karelia” e “Borei” dotati ciascuno di sedici missili balistici a lungo raggio. Thomas indicava decine di nomi e a ogni nome faceva corrispondere numeri di testate nucleari, tutte dislocate nel raggio di 80-100 chilometri da Kirkenes, cioè dal territorio Nato. Mi raccontava di un deposito segreto nella penisola di Kola, a 20 chilometri dal centro minerario di Olenegorsk, che fornisce (forniva, prima delle sanzioni occidentali) nickel per le auto elettriche. Nome in codice Unità 62834, ma in gergo Nato si chiama la “Città degli zar”. Sarebbe la centrale di comando in caso di guerra nucleare. Thomas racconta che tre navi da guerra, la Olenegorskiy Gornyak, la Georgiy Pobedonosets e la Pyotr Morgunov sono state le prime a lasciare la penisola di Kola ai primi di gennaio per posizionarsi nel Mar Nero già intorno al dieci febbraio.

I missili ipersonici Tsirkon – forse già utilizzati in Ucraina – sono stati testati nell’ottobre 2021 nel mare di Barents dal sommergibile nucleare Severodvinsk e dislocati nella baia di Okolnaya, circa a quaranta chilometri da Murmansk. “Qui sono tutti in allerta, da una parte e dall’altra del confine. Con l’entrata nella Nato di Finlandia e Svezia questo diventerà il posto più caldo del Pianeta”, mi diceva Thomas. È direttore del Barents Observer, quotidiano online fondato il 7 ottobre 2015, compleanno di Putin e di Anna Politkovskaja. Pubblica anche in lingua russa, per bucare la censura d’oltrecortina. Un giorno, alla frontiera, gli agenti dell’FSB, i servizi russi, gli hanno detto niet, Poi ha scoperto che Mosca aveva chiesto a Oslo la testa del direttore scomodo perché aveva definito lo stato dell’informazione nella regione artica russa “peggiore che ai tempi dell’Urss”.  Successivamente hanno proposto al governo norvegese di restituire il visto a Thomas in cambio dello stop alle sanzioni, imposte dopo l’annessione della Crimea. Ma la Norvegia guida la classifica mondiale della libertà di stampa e difende i giornalisti almeno quanto i pozzi petroliferi.

"Dall'Artico dipende il futuro della Russia”

Thomas non può mettere piede in Russia, ma il suo lavoro e il suo archivio continuano ad essere un patrimonio internazionale. Segue da anni, varo dopo varo, bunker dopo bunker la trasformazione della regione confinante in una fortezza tra i ghiacci. In quattro anni sono stati messi in piedi un comando artico, quattro brigate artiche d’assalto, quattordici nuove basi aeree operative. La più spettacolare e inquietante è la base Trifoglio, nell’isola di Alexandra, 80 gradi Nord, la più remota dell’arcipelago Terra di Francesco Giuseppe (scoperto da un tirolese nel 1874). Siamo a 500 miglia a Sud del Polo. È un complesso di 14 mila metri quadrati, dipinto col tricolore russo, articolato in moduli come la stazione spaziale internazionale, composto da tre “astronavi” circolari collegate a una struttura centrale di comando. Trifoglio ospita un battaglione addestrato alla guerra bianca in grado di sopravvivere per diciotto mesi senza rifornimenti, è dotata di dispositivi radar antimissile e di una pista riscaldata ad uso di una flottiglia di caccia Mig-31 e dei bombardieri a lunga percorrenza (4000 chilometri) TU-160 e TU95MS. “Siamo tornati”, ha detto Putin all’inaugurazione nel 2017. “Con certezza possiamo affermare che il nostro potere e le nostre opportunità cresceranno con l’espansione russa nell’Artico”, ha annunciato camminando sulla banchisa con quel suo incedere da pistolero. “Da questa regione dipende il futuro della Russia. Dobbiamo constatare le minacce della Nato alle nostre porte, siamo qui per proteggere i nostri confini e le nostre ricchezze. Questo è territorio russo, diversamente dagli altri non costruiamo basi in Paesi stranieri. Dobbiamo garantire la sicurezza delle nostre nuove rotte polari e degl’impianti d’estrazione. Siamo qui per affermare la sovranità russa su questo mare”.

L’inverno è sempre stato il miglior alleato dei russi a partire dalla guerra contro la Svezia nel 1707; il gelo ricopre la loro Storia come una coperta, consegna all’oblio pure i milioni di morti dei gulag zaristi e sovietici. L’attrazione per il Grande Nord è radicata nell’identità russa, ha alimentato la mistica della sfida eroica alla Natura e il mito della frontiera, quanto il Far West per gli americani. Il credo messianico russo, ma soprattutto il materialismo dei Soviet individuano nel Nord il baricentro dell’avvenire: “La Russia crescerà in Siberia e nel ghiaccio e imporrà il suo ordine”, scriveva già nel Settecento lo scienziato e poeta Mikhailo Vasilievich Lomonosov. E l’Artico è diventato l’ossessione di Putin, la sua priorità e il suo bancomat. Petrolio e gas estratti oltre il circolo polare rappresentano oggi il 40 per cento del budget federale, il 60 per cento dell’export (oltre duecento miliardi di metri cubi di gas artico arrivano in Europa). L’accademia delle Scienze nel 2021 ha quantificato in 30 trilioni di dollari il valore delle ricchezze minerarie e geostrategiche potenziali nell’Artico russo, includendo anche le ricadute economiche dallo sviluppo della Northern Sea Route, la rotta marittima settentrionale che collega Occidente e Oriente, da Murmansk allo Stretto di Bering, una sorta di Via Appia polare nella dottrina putiniana. Un asset geopolitico che ora rischia d’essere abbattuto dalla contraerea delle sanzioni, oppure che, nella migliore delle ipotesi, verrà ipotecato dalla Cina, unico partner su piazza in grado di subentrare agl’investimenti di banche e società occidentali. Alla vigilia della guerra, il 22 aprile, Putin e Xi Jimping hanno siglato un accordo di cooperazione “senza limiti” che potrebbe consegnare le chiavi della cassaforte dell’Artico russo a Pechino. Putin ha visto decollare il suo potere nei prima anni Duemila di pari passo con l’aumento del prezzo del petrolio esportato dal Grande Nord, e lassù ha gettato le basi, militari ed economiche, per la sua offensiva neo-imperiale. Il grande timore è che, sempre nel suo amato Artico, decida di sparare l’ultima cartuccia.

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