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Diario da Kabul / 1 – Destino afghano: uccisi o dimenticati

La prima puntata del Diario da Kabul, dove “i bambini che non muoiono fra le bombe restano segnati dalle malattie”. Eppure in quest’Afghanistan della disumanizzazione c’è chi s’arricchisce…
A cura di Enrico Campofreda
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Pensate ai corpicini inanimati messi in fila nel villaggio del distretto di Shigal, morti nel crollo della casa colpita dalle bombe della missione Isaf. Li mostra solo qualche foto dell’informazione web. Dove credete che finiranno le famiglie senza più un tetto? Vagheranno per altre province com’è accaduto anni addietro alla gente del Parwan Camp della periferia di Kabul provenienti da Jalalabad, Kapisa e Laghman.

Malati di miseria – Se ne stanno in quest’angolo miserabile della capitale in cinquecento, ammassati in capanne di fango e sterco di vacca, con un mare di bambini esposti a ogni possibile infezione. Un focolaio di contagio perenne perchè in quello spazio ristretto sempre più dall’assedio di nuove costruzioni c’è solo una bocca d’acqua, peraltro non è potabile. Abbandonati dal governo che non gli dà alloggio, così i bambini che non muoiono sotto le bombe restano segnati da malattie. E’ l’eredità ricevuta dall’Enduring Freedom di Bush passata a Obama e accolta e sostenuta  anche dal Parlamento italiano.

Zero infrastrutture – Né acqua né fogne e figurarsi se c’è energia elettrica. Questi afghani sono dimenticati dagli stessi progetti della Comunità Internazionale che s’è fatta viva solo con una Ong tedesca che ha montato due tende per una scuola frequentata da cento maschietti e sessanta bambine dai sei ai quindici anni. A seguirli due giovani insegnanti afghani di buona volontà. Dice Imam il capo villaggio: “Nella scuola statale non li volevano perchè sono malvestiti e puzzano. Ma come facciamo a lavarli senz’acqua? D’inverno almeno sciogliamo la neve ma dopo? Noi uomini cerchiamo lavoro però è difficile avere continuità, facciamo i facchini per non più di sette giorni al mese. Ho parlato coi capi famiglia per aiutare quelle donne che non hanno nessuno accanto, raccogliamo quel che possiamo per sostenerle”.

Prigioniere della povertà –  Alcune di queste donne danno segni di squilibrio mentale, costrette dai costumi a restare in quello spazio maledetto senza poter uscire. Un aiuto arriva da uno psicologo che settimanalmente va a visitarle, si tratta di personali gesti d’umanità. Unica nota positiva è la creazione di un’infermeria messa su ai margini del campo. Per le urgenze non possono ricorrere neppure al famoso ospedale di Emergency che sorge nella zona delle ambasciate, la cittadella blindata comunque oggetto di attentati. La struttura sanitaria, frequentata da afghani di altre zone, cura solo vittime di guerra, non i casi di povertà che ormai riguardano l’80% della popolazione.

“Moriremo qui” – Eppure in quest’Afghanistan della disumanizzazione c’è chi s’arricchisce. Sono i  businessmen vicini a Karzai e ai Signori della guerra, entrati a pieno titolo nel governo filoccidentale il cui prossimo passo è l’apertura ai talebani. Sono loro a gestitre i fondi che la cooperazione mondiale elargisce senza controllare la destinazione. Un ricco signorotto di questi, tal Haji Babrak, è il committente delle costruzioni che sorgono attorno al campo e vorrebbero espandersi nell’area. “L’imprenditore” ha spedito i suoi uomini a minacciare lo sfratto. Il capo villaggio dice: “Non abbiamo nient’altro che le nostre misere vite e non abbiamo più paura di nulla. Se ci cacciano moriremo qui”.

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