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Pensioni: in Italia problema antico, ma Francia e Germania non stanno meglio

Di chi è la colpa del “buco” che la sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni rischia di aprire nei conti pubblici? Del legislatore italiano e della sua ondivaga generosità. Ma Germania e Francia per una volta non possono farci la morale…
A cura di Luca Spoldi
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“Se dovessimo azzerare del tutto la norma bocciata dalla Consulta dovremmo restituire 18 miliardi di euro che andremmo a togliere a qualcos’altro” come asili o infrastrutture, visto che 18 miliardi di euro in cassa a disposizione non ce ne stanno. E’ chiarissimo il premier Matteo Renzi nella conferenza stampa al termine del valle dell’atteso Consiglio dei ministri che oggi ha varato il decreto per cercare di tappare l’ennesima falla nei conti pubblici, aperta in questo caso dalla sentenza del 30 aprile scorso della Corte costituzionale che ha bocciato la norma (contenuta nel decreto “Salva Italia”) con cui l’allora governo Monti nel 2011, alle prese con una crisi senza precedenti delle finanze pubbliche italiane e con un assalto ai titoli di stato italiani che sul mercato vedevano il rendimento toccare un massimo superiore al 7,26% (con uno spread del 5,74% altrettanto sui massimi di sempre), aveva bloccato la rivalutazione di una parte delle pensioni pubbliche.

Per la precisione Monti bloccò, per il solo biennio 2012-2013, la rivalutazione automatica delle pensioni di importo pari a tre volte il minimo Inps (mentre al di sotto di tale soglia venne comunque confermata l’applicazione del 100% della perequazione automatica), ma la Corte Costituzionale, facendo un’anamnesi storica della normativa previdenziale italiana, ha segnalato come “soltanto le fasce più basse (di reddito, ndr) siano integralmente tutelate dall’erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle pensioni”, cosa che non fa una grinza, se non fosse che per “fasce più basse” la Corte ha precisato si devono intendere pensioni sino a 5 volte il minimo (e non sino solo a 3 volte). Sopra tale livello, a leggere la sentenza, non dovrebbe essere obbligatorio procedere ad una tutela integrale, bensì solo parziale.

Per capirci, la cosiddetta tale trattamento minimo, il cui livello viene aggiornato ogni anni per legge ed è considerato un “minimo vitale”, è pari a poco meno di 502 euro al mese ed era pari a 481 euro nel 2012. Renzi dovrà dunque rimborsare in teoria integralmente tutti coloro nel 2012 godevano di un importo tra i 1.445 e i 2.405 euro circa ed eventualmente parzialmente coloro che godevano di assegni di importo superiore, ma non avendo risorse adeguate inizia a rimborsare in modo integrale chi percepisce un assegno inferiore ai 1.500 euro al mese e parzialmente chi gode di un assegno mensile non superiore ai 3.000 euro (pari dunque a circa 6 volte il trattamento minimo corrente). Per tutti gli altri niente da fare. E’ giusto, è sbagliato? Messa così la domanda non ha senso, il problema è se sia sostenibile o meno per i nostri conti pubblici e se il sistema richieda o meno ulteriori “correzioni” anche tenuto conto dei sistemi adottati dagli altri partner europei.

E’ facile dimostrare che il problema in Italia sussiste a causa dell’eccessiva generosità dei governi tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del secolo scorso, che correggere le norme, come dimostra la sentenza della Corte Costituzionale, è difficoltoso a causa dei continui ripensamenti del legislatore e che però il sistema previdenziale italiano nel suo complesso è messo non peggio ed anzi forse meglio di altri come quelli di Germania e Francia, cosa che dovrebbe evitarci ulteriori “pesanti” riforme (ma non ci esime certo da una continua manutenzione del sistema nel suo complesso, che tenga conto del mutare dello scenario demografico e del mercato del lavoro). Andiamo con ordine: il sistema previdenziale pubblico italiano era basato sul metodo “retributivo” (la tua pensione sarà proporzionata alla tua retribuzione) fino al 1992.

Questo impianto, nato nel secondo dopoguerra, venne arricchito nel 1969 di un meccanismo di rivalutazione che legò, in percentuale, gli aumenti delle pensioni all’indice del costo della vita calcolato dall’Istat, ai fini della scala mobile delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria. I decenni di forte crescita economica a cavallo tra gli anni Sessanta e Ottanta determinarono tuttavia una forte crescita sia dell’inflazione, sia delle retribuzioni contrattuali, facendo schizzare di pari passo la spesa previdenziale. Sganciata la “scala mobile” nel 1992, gli adeguamenti perequativi divennero annuali e vennero da allora calcolati sul valore medio dell’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. Qualche “manina” tuttavia aggiunse, incautamente, che ulteriori aumenti “potessero essere stabiliti con legge finanziaria, in relazione all’andamento dell’economia”.

La Riforma Dini, del 1995, faceva entrare in vigore un nuovo sistema di calcolo delle pensioni, su base contributiva (la tua pensione sarà proporzionata ai contributi che negli anni hai versato), appena in tempo si potrebbe dire col senno di poi, visto che la crisi economica e demografica lavoravano ai fianchi la base contributiva (il numero di lavoratori attivi che versano contributi previdenziali); tuttavia qualcuno nel 1998 pensò bene (si fa per dire) di confondere ulteriormente le carte stabilendo che i trattamenti pensionistici andassero tutelati “dalla erosione del potere di acquisto della moneta, che tende a colpire le prestazioni previdenziali anche in assenza di inflazione”. Frase decisamente sfortunata che ha portato ad una rivalutazione di fatto automatica delle pensioni, sganciandola anche dall’andamento dell’inflazione (oltre che dai salari).

Per evitare il collasso del nuovo sistema, più stabile nel lungo termine del precedente, ma con crescenti rischi di deficit attuariale in caso di crisi economica prolungata, dato che il flusso di contributi correnti che paga le pensioni correnti tende a prosciugarsi mentre gli assegni previdenziali continuano a crescere, nel 2000 si decise che la rivalutazione automatica spettasse per intero solo “per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici fino a tre volte il trattamento minimo Inps”, per il 90% “per le fasce di importo da tre a cinque volte il minimo” e per il 75% “per i trattamenti eccedenti il quintuplo del minimo” (ma nel 2007 l’ennesimo atto di “generosità” tornò a prevedere una rivalutazione automatica al 100% per il triennio 2008-2010 per tutti gli importi sino a 5 volte il minimo).

Infine, lo scorso anno, la “stretta” ormai non più rinviabile, con una parvenza di equità sotto forma di una progressività inversa: perequazione automatica al 100% fino a 3 volte il minimo; al 95% tra 3 e 4 volte il minimo; al 75% tra 4 e 5 volte il minimo; al 50% tra 5 e 6 volte il minimo; al 45% oltre 6 volte il minimo. Perché sia così delicato l’argomento è evidente: già oggi i 65enni rappresentano circa il 21% della popolazione italiana e nel 2040 saliranno al 30% secondo le stime Eurostat. Eppure che non si tratti di un “diritto acquisito” ma di una distorsione di un meccanismo nato con intenti meritori ma gestito pessimamente è evidente se fate caso al fatto che nel 1955 lo stato spendeva per le pensioni pubbliche 274 miliardi di vecchie lire all’anno, mentre nel 2013 secondo l’Inps le pensioni sono costate nel complesso 266 miliardi di euro (cui bisogna aggiungere oltre 40 miliardi ulteriori tra ammortizzatori sociali, coperture per contribuzioni figurative e assegni per famiglia, malattia e maternità).

Significa che negli ultimi 60 anni la spesa previdenziale è cresciuta di quasi 2 mila volte, certo non solo per via della rivalutazione ma anche per il numero crescente di pensionati (19,5 milioni a fine 2013). Per quanto spiacevole una ricalibrazione verso il basso del meccanismo di rivalutazione, specie ove perdurassero situazioni di bassa inflazione come quelle che stanno caratterizzando da alcuni anni la nostra economia, appare inevitabile. Da respingere al mittente con altrettanto chiarezza sarebbero invece richieste di ulteriori riforme della previdenza pubblica (o di quella integrativa, che semmai andrebbe agevolata proprio per compensare le minori tutele delle pensioni publiche).

Se si guarda alla Germania, infatti, si scopre che i contributi sono divisi equamente tra impresa e lavoratore (come in Italia) ma ancora si calcolano in percentuale sullo stipendio lordo, arrivando al 40% complessivo dello stipendio lordo (i contributi versati dai lavoratori vengono dedotti direttamente dal salario), mentre in Francia le pensioni sono ugualmente calcolate in base a un sistema retributivo, in base alla retribuzione media annua di ciascun lavoratore (dal 2008, per tutti gli assicurati nati dopo il 1947, la retribuzione media annua è calcolata sulla base dei 25 anni migliori), con un’anzianità assicurativa tra i 62 e i 67 anni per gli assicurati nati dopo il primo gennaio 1955 che garantisce un’aliquota di liquidazione della pensione piena. Morale della favola: se l’Italia piange, per colpe proprie di vecchia data, Germania e Francia non brillano per particolari virtù in questo campo neppure oggi.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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