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3 Luglio 2025
17:43

Perché il Palio di Siena esiste ancora?

Dal 1970 ad oggi si calcola che siano morti circa 50 cavalli. E allora la domanda è: perché il Palio di Siena esiste ancora? Per capirlo bisogna partire da lontano.

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20 ottobre 2018. Durante una delle curve più strette del Palio di Siena, il cavallo Raol, 8 anni, cade rovinosamente a terra. La zampa fratturata penzola nel vuoto, le immagini – trasmesse in diretta – fanno il giro del web. Poche ore dopo, Raol viene abbattuto. È l’ennesimo incidente di una lunga serie. Dal 1970 ad oggi si calcola che siano morti circa 50 cavalli. E allora la domanda torna a bruciare: perché il Palio di Siena esiste ancora?

Un’eredità lunga secoli ma le condizioni non erano queste

Per capire il legame profondo tra i senesi e il Palio, bisogna partire da lontano. La prima corsa ufficiale risale al 1239, in onore della Madonna Assunta. Però, all’epoca, la corsa si svolgeva su un tracciato lineare fuori dalle mura: in questo modo, i cavalli correvano su terreni naturali e più morbidi, senza affrontare curve pericolose a gomito come accade oggi.

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Dal ‘600 si è trasferito in Piazza del Campo, dove si svolge tutt’oggi due volte l’anno: il 2 luglio e il 16 agosto (sempre in coincidenza con ricorrenze religiose). Oggi però, più che una manifestazione religiosa, è una festa popolare identitaria, con 17 contrade che si sfidano a rotazione, cortei storici, rituali millenari e un impatto economico significativo per la città. Eppure, ogni volta che un cavallo cade, si ferisce o muore, qualcosa si incrina nel racconto di questa “festa”.

La “corsa della morte”

Non è tanto la corsa in sé ad allarmare, ma il tipo di percorso. Il circuito misura appena 339 metri, con due curve a gomito (San Martino e Casato) e, visto che si corre nel centro storico, il terreno è la pavimentazione della piazza stessa, fatta di un tipo di arenaria che si chiama "pietra serena", ricoperta per l’occasione da un mix di tufo, argilla e sabbia. Questo strato di terra, per essere compatto ed elastico, deve essere innaffiato, ma, nonostante questa procedura, risulta essere una superficie più dura rispetto a quella degli ippodromi. I cavalli – animali dal fisico delicato e progettati per movimenti lenti e costanti – affrontano invece tre giri a velocità elevata in condizioni tutt’altro che ideali. Il rischio è concreto. Ed è per questo che da decenni associazioni come LAV, OIPA e IHP denunciano la pericolosità della corsa e, più in generale, lo sfruttamento dei cavalli.

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Le misure di sicurezza: negli ultimi anni il Palio è “più sicuro”?

Negli anni, il Comune di Siena ha introdotto diverse misure di sicurezza: materassoni protettivi nelle curve, controlli antidoping, visite veterinarie, test alcolemici per i fantini, selezione dei cavalli e circuiti di allenamento dedicati. Secondo uno studio dell’Università di Parma, gli incidenti gravi (ad esclusione di tutti gli incidenti minori) sarebbero scesi dallo 2,2% degli anni 70 allo 0,5% negli anni 2000.

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Tuttavia, le polemiche non si sono mai spente. Anche perché, come dimostra il caso del fantino Luigi Bruschelli – condannato nel 2024 per maltrattamento – non sempre le regole vengono rispettate. E, più in generale, resta il nodo etico: si può ancora accettare un evento in cui il rischio per gli animali è sistemico, per quanto mitigato?

Il paradosso giuridico

l’art. 544-ter del Codice penale punisce “chiunque organizza o promuove spettacoli o manifestazioni che comportino sevizie o strazio per gli animali”. A rigor di logica, verrebbe da chiedersi: ma una manifestazione potenzialmente pericolosa come il Palio, non rientra in questa categoria? In teoria potrebbe pure, ma esiste una clausola, per cui “le disposizioni non si applicano alle manifestazioni storiche e culturali autorizzate dalla regione competente”. Dal 2010 si discute sul candidare o meno questa manifestazione a diventare patrimonio UNESCO.

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Attenzione, non significa che tutto sia concesso. I limiti da non superare sono stabiliti dalle ordinanze per la sicurezza nei palii, e dal Comune di Siena che, dal canto suo, ha tutto un apparato normativo che disciplina ogni aspetto del Palio, dalla selezione dei cavalli alle sanzioni per i fantini scorretti.  Però, in pratica, se una manifestazione è radicata nella tradizione, gode di una sorta di immunità giuridica.

Il cavallo non è un animale da sforzo esplosivo: cosa dice l’etologia

Come spiega l’etologo Sonny Richichi, presidente di IHP: “Il cavallo non è un atleta e non ha senso della competizione. In quel contesto sono forzati, è un’ipocrisia dire che lo fanno volentieri”.

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Noi abbiamo questa immagine poetica dei cavalli che corrono liberi verso l’orizzonte, quando in realtà i cavalli non corrono affatto tutto il tempo. Anzi, passano gran parte della giornata fermi, in quiete. Questo perché il cavallo è un erbivoro, una preda: la sua sopravvivenza dipende da quanto riesce a conservare le energie per fuggire solo quando serve davvero. In libertà, i cavalli vivono in mandria e passano oltre 15 ore al giorno a pascolare lentamente, muovendosi pochissimo.

Il loro corpo è progettato per un’attività lenta, costante, a basso consumo, non per lo sforzo esplosivo continuo. Ed è proprio per superare questi limiti naturali che vengono sottoposti a intensi programmi di allenamento. Quando poi percepiscono un pericolo, uno solo del branco reagisce (il cosiddetto cavallo sentinella), e – solo se è necessario – tutto il gruppo fugge. Anche il loro apparato digerente – estremamente delicato – funziona meglio con un’attività motoria regolare e non stressante.

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Ecco perché, dopo una gara ad alta intensità come il Palio, la gestione del cavallo nel post-gara è fondamentale: un dispendio energetico così improvviso e intenso può causare coliche, disidratazione o squilibri metabolici, con conseguenze anche serie, ad esempio a livello degli zoccoli.

Perché il Palio esiste ancora?

Quindi perché il Palio esiste ancora? A questa domanda si potrebbe rispondere così: perché esiste un attaccamento profondo, radicato, che non si può liquidare con un giudizio semplice. Però un’eredità non è mai un alibi: è una responsabilità. E se davvero vogliamo che queste tradizioni restino vive, il futuro sta nella capacità di metterle in discussione, di adattarle, di trovare un linguaggio nuovo. Un linguaggio che parli anche il benessere degli animali, e non solo quello dell’identità collettiva.

Perché se diciamo di amare il cavallo – come simbolo, come compagno, come memoria viva – allora dobbiamo anche chiederci se stiamo facendo abbastanza per proteggerlo. Forse la vera tradizione da custodire non è la corsa, ma la capacità di evolvere insieme alla nostra coscienza. E di scegliere, un giorno, che certe cose continuano non solo perché “si sono sempre fatte”, ma perché abbiamo imparato a farle meglio. Per ogni vita coinvolta.

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