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È stata recentemente pubblicata sulla prestigiosa rivista Science la prima mappa globale degli spostamenti della megafauna marina: oltre 12.000 animali monitorati via satellite, appartenenti a più di 100 specie diverse, seguiti lungo rotte che attraversano oceani, che si sovrappongono a quelle delle navi mercantili e che si intrecciano con le zone critiche di pesca industriale, coprendo oltre il 70% della superficie oceanica. Il progetto si chiama MegaMove e potrebbe cambiare (e migliorare) il modo in cui pensiamo alla conservazione degli oceani.
Si tratta di un lavoro enorme e senza precedenti, coordinato da Ana Sequeira dell'Australian National University, ma che ha coinvolto circa 400 scienziati di 50 paesi, inclusa l'Italia, anche con il supporto delle Nazioni Unite. L'ambizioso obiettivo era capire dove si muovono i grandi giganti del mare – balene, squali, tartarughe, foche e tanti altri – dove vanno a mangiare, in quali acque riposano, quali rotte migratorie seguono. Ma soprattutto, dove rischiano di più di scomparire a causa delle attività umane.
Una mappa globale per salvare i giganti degli oceani

Dietro il progetto MegaMove c'è la convinzione – supportata da una mole impressionante di dati – che non si possa proteggere ciò che non si conosce. Le aree marine protette oggi coprono solo l'8% di tutti oceani, eppure sono tra i pochi rifugi dove la biodiversità può respirare. Con il trattato ONU per la tutela dell'Alto Mare (High Seas Treaty), 115 Paesi si sono impegnati a portare questa copertura al 30% entro il 2030 (il famoso obiettivo "30×30"). Ma c'è un grosso problema.
Secondo Francesco Ferretti, ecologo marino coinvolto nello studio e oggi ricercatore al Virginia Tech, "anche se riuscissimo a proteggere il 30% degli oceani, il 60% degli habitat critici per questi animali resterebbe comunque scoperto". Tradotto: per salvare i grandi del mare, le aree protette da sole non bastano. Servono misure di mitigazione più mirate ed efficaci. Cambiare le tecniche di pesca, modificare le rotte navali, ridurre l'inquinamento luminoso e acustico. Agire dove davvero serve, perché ora sappiamo dove serve.
Studiare il comportamento degli animali per capire dove agire

Tra i protagonisti di MegaMove ci sono anche diversi scienziati italiani: Paolo Casale e Paolo Luschi dell'Università di Pisa, Angela Formia della Wildlife Conservation Society, Enrico Gennari del South African Institute for Aquatic Biodiversity, ed Enrico Pirotta dell'Università di St Andrews nel Regno Unito. "Non si tratta solo di tracciare linee su una mappa", ha sottolineato ancora Ferretti. "Dobbiamo comprendere il comportamento degli animali, integrarlo con le attività umane e solo così possiamo trovare soluzioni sostenibili".
La parola chiave è quindi convivenza, perché la megafauna marina non è un ostacolo alle attività economiche, anzi, è un alleato fondamentale per la salute degli oceani e quindi anche per la nostra. A fornire parte dei dati più preziosi è stata l'Università della California a Santa Cruz (UCSC), punto di riferimento mondiale per la ricerca sul comportamento della fauna marina. Da oltre 60 anni gli scienziati del centro studiano il comportamento degli elefanti marini e delle balene lungo le coste californiane, fino all'Antartide.
Ora sappiamo dove agire

"Il bello di questo studio", ha raccontato Ari Friedlaender del centro, "è che non si concentra su una sola specie, o su un singolo oceano. È trasversale e mostra come tanti animali diversi utilizzano spesso le stesse aree critiche. E questo ci permette di proteggere interi ecosistemi". Heather Welch, anche lei ricercatrice alla UCSC, ha recentemente dimostrato che molte zone dove balene e navi entrano in rotta di collisione non sono oggi protette. Ma ora, con questa mappa globale, quegli hotspot sono stati individuati con maggiore precisione.
Possiamo finalmente sapere dove intervenire per evitare tragedie invisibili, ma purtroppo quotidiane. La protezione degli oceani e dei loro abitanti non si gioca più solo sulle percentuali di superficie da proteggere. Si gioca anche sulla precisione. MegaMove dimostra però che sappiamo ora dove agire, e che agire si può. "La scienza", ha detto Friedlaender, "può davvero unire le persone verso un obiettivo comune. E in questo caso, l'obiettivo è la sopravvivenza stessa della vita marina".
Il futuro è tracciato

Un concetto che è stato ripreso anche dalla coordinatrice Ana Sequeira, che invita a pensare alla conservazione non come a una barriera, ma come a un insieme di soluzioni intelligenti e flessibili. Come l'uso di luci e dissuasori nelle reti da pesca per ridurre il bycatch – la cattura accidentale di animali, come sta accadendo da anni con le berte minori nel Tirreno – o la creazione di corridoi marini migratori più sicuri per permettere agli animali di spostarsi e prosperare. Sono idee concrete e mirate.
La mappa realizzata dal progetto MegaMove è però un punto di partenza, non di arrivo. È una sorta di atlante della biodiversità marina e delle sue vulnerabilità, ma anche uno strumento concreto per migliorare la conservazione degli oceani. Se sapremo leggerla, potremo cambiare rotta e migliorare non solo al tutela dei giganti del mare e degli ecosistemi che gestiscono, ma anche rendere più efficienti e produttive le attività umane. Perché proteggere chi vive nell'oceano significa proteggere l'oceano stesso. E questo serve tanto anche a noi.