
Quando un animale selvatico viene trovato gravemente ferito, nella maggior parte dei casi la scelta più umana è l'eutanasia. Non per mancanza di compassione, ma perché la natura raramente concede seconde possibilità: anche un animale riabilitato può non riuscire più a cacciare, non trovare un gruppo sociale o non riprodursi mai.
Per questo, salvare un singolo individuo spesso non cambia il destino di una specie. Ma a volte una storia riesce a scalfire questa sorta di regola non scritta. È il caso di Terefe, il primo lupo etiope mai curato in cattività e poi liberato con successo in natura.
Il lupo etiope, il carnivoro più raro dell'Africa

Questa vicenda si svolge tra le montagne del Simien, nel nord dell'Etiopia, a oltre 3.000 metri di quota. Qui l'aria è rarefatta, le notti sono gelide e la vita è dura per chiunque. Ma questo è anche l'unico posto nel mondo in cui vive il lupo etiope (Canis simensis), il carnivoro più minacciato di tutta l'Africa.
Ne restano meno di 500 individui in tutto il paese e appena 60-70 in quest’area. Si tratta di un predatore sociale altamente specializzato, che si nutre quasi esclusivamente di roditori e che vive in branchi stabili. All'inizio di maggio del 2020, un maschio adulto viene trovato immobile sotto un ponte, incapace di muoversi. È stato colpito da un proiettile e ha il femore fratturato.
In un ambiente come quello del Simien, una ferita simile equivale a una condanna a morte, poiché senza poter seguire il suo branco per cacciare la sopravvivenza è impossibile. A scoprire l'animale sono le guardie del parco, che avvisano subito Getachew Assefa, responsabile del monitoraggio dei lupi per l'Ethiopian Wolf Conservation Programme (EWCP), un programma di conservazione attivo da oltre trent'anni.
Spari all'interno del parco sono rari, e proprio per questo le autorità etiopi e l'EWCP decidono di tentare qualcosa che non era mai stato fatto prima: catturare il lupo, curarlo e provare a salvarlo.
Terefe, il "sopravvissuto fortunato"

Come ha raccontato Sandra Lai, ricercatrice post-doc dell'EWCP e autrice dell'articolo pubblicato su The Conversation, si tratta di una scelta senza precedenti, per questo descritta anche in uno studio su Conservation Science and Practice. Nessun lupo etiope era mai stato tenuto in cattività prima. Ma a pesare sulla decisione sono soprattutto due fattori: la ferita è causata direttamente da un essere umano e la popolazione locale è talmente ridotta che ogni individuo conta.
Un piccolo rifugio di montagna viene così trasformato in un recinto di fortuna e qui inizia una riabilitazione durata 51 giorni, seguita passo dopo passo da veterinari e studiosi della specie. A occuparsi quotidianamente del lupo è Chilot Wagaye, una guardia locale, e se all'inizio le condizioni sono critiche e i progressi lenti, col tempo le ossa iniziano a saldarsi. Dopo circa un mese di cure e attenzioni, il lupo riesce di nuovo a stare in piedi.
Viene chiamato Terefe, che in amarico significa "sopravvissuto fortunato". Lentamente il lupo inizia a guarire e quando sembra ormai completamente ristabilito, anche il suo comportamento cambia. La notte ulula sempre più spesso, forse nel tentativo di mettersi in contatto col suo branco, e così gli esperti decidono che è arrivato il momento.
Alla fine di giugno del 2020 arriva così il momento più delicato, quello del rilascio in natura. Terefe viene liberato vicino al suo territorio originario e dotato di un leggerissimo collare GPS, il primo mai usato su questa specie. Serve a rispondere a una domanda semplice, ma cruciale: un lupo etiope curato e riabilitato dagli esseri umani può davvero tornare a vivere da selvatico?
Un salvataggio storico che va ben oltre Terefe

La risposta arriva molto presto. Terefe viene riaccettato dal suo branco e ci rimane per alcune settimane. Poi inizia a esplorare territori più ampi, entra in contatto con altri gruppi e alla fine si stabilisce nei pressi del villaggio di Shehano. Qui, inizialmente, la sua presenza spaventa gli abitanti. Ma gli esperti e i membri dello staff del parco raccontano la sua storia alle persone, spiegano cosa ha passato e perché è così speciale.
Qualcosa cambia e gli abitanti del villaggio iniziano così a proteggerlo. Terefe, ora in dispersione, trova così una compagna, nascono dei cuccioli e prende forma ufficialmente quello che oggi viene chiamato "il branco di Terefe", tutt'ora esistente e formato da lui, la sua compagna e le varie generazioni di cuccioli che nascono di bvolta in volta ogni anno.
La sua storia, come ha sottolineato Sandra Lai, non significa che ogni animale ferito debba essere salvato a ogni costo. Ma dimostra che, quando l'intervento è attento e condiviso, una singola vita può avere un impatto che va oltre la biologia. Terefe non ha infatti solo contribuito alla sopravvivenza della sua specie formando un branco tutto nuovo, ma ha cambiato il modo in cui le persone del posto guardano ai lupi.
In un contesto difficile e in cui molti lupi etiopi continuano a morire per malattie trasmesse dai cani, come rabbia e cimurro, la sua vicenda resta comunque un'eccezione, ma è anche un promemoria potente che dimostra come la conservazione possa funzionare davvero quando scienziati, istituzioni e comunità locali lavorano davvero insieme. E a volte, da un singolo individuo, può nascere una nuova storia di convivenza per un'intera specie.