
La relazione con il cane è parte fondamentale dei nuclei familiari della società moderna. Sono nove milioni i "Fido" che vivono nelle case degli Italiani, secondo l"ultimo rapporto Assalco-Zoomark, e la convivenza con l'animale domestico, gatto compreso, è un motore che spinge anche l'economia nel nostro Paese in cui "il mercato del pet" nel 2025 è già arrivato a valere 4,2 miliardi di euro.
L'animale familiare è spesso al centro di dibattiti etici, questioni di sicurezza pubblica e proclami politici ma poco ancora è diffuso il concetto, avvalorato dalla scienza, del cane in particolare come individuo dotato di cognizioni ed emozioni che ha sue necessità da appagare per essere soddisfatto della vita che conduce. Tra casi di cronaca in cui determinate tipologie di quattro zampe continuano a essere etichettate come pericolose a prescindere dalla dinamica degli eventi e dalla responsabilità delle persone di riferimento e immagini che si diffondono sui social di animali umanizzati e la cui dignità viene costantemente lesa, esistono realtà professionali che puntano a una corretta informazione.
Come deve essere intesa oggi la relazione tra due specie che si sono co evolute nell'arco di un tempo così lungo, che oggi porta gli scienziati ad andare fino a 30, 40 mila anni fa per trovare l'inizio dell'amicizia tra cani e umani, è oggi il punto di partenza fondamentale per descrivere i confini entro i quali definire i termini di responsabilità e coerenza necessari da parte degli esseri umani nei confronti del "miglior amico dell'uomo".
Abbiamo così chiesto alla veterinaria esperta in comportamento Alessia Gargani, presidente dell'associazione Viva (“Veterinari Italiani contro la Violenza sugli Animali”), di analizzare insieme a noi le tante sfaccettature che animano il mondo in cui oggi le zampe di un cane e le gambe di una persona si incontrano per camminare insieme nel mondo.
Cosa fa un medico veterinario esperto in comportamento?
Si occupa del benessere emotivo degli animali. È un veterinario che, oltre alla formazione generale, ha approfondito lo studio del comportamento animale attraverso percorsi accademici specialistici. Il nostro lavoro si declina in termini di prevenzione e di cura e, attraverso l’iter diagnostico, individuiamo le strategie più adatte per aiutare il singolo individuo. Il primo passo è sempre una valutazione completa che tiene conto non solo dell’osservazione diretta del comportamento spontaneo dell’animale, ma anche dello stato di salute fisica, dell’ambiente in cui vive e del tipo di relazione che ha con i suoi care givers. Spesso, infatti, un problema comportamentale può essere correlato ad una condizione fisica, che provoca ad esempio dolore, e che va in primis individuata e trattata in maniera adeguata. Il veterinario esperto in comportamento elabora quindi un piano terapeutico personalizzato, che può includere modifiche ambientali, un percorso di rieducazione comportamentale e, quando necessario, anche un supporto farmacologico, nutraceutico, fitoterapico.
In che modo il vostro lavoro poi ha effetto sul rapporto tra cane e persona di riferimento e anche sulla società civile?
Ci occupiamo della prevenzione dell'incolumità pubblica, sempre analizzando il contesto, il comportamento dell'animale, le competenze e le esigenze di tutti gli appartenenti al nucleo familiare, e proponiamo soluzioni che tutelino la sicurezza, che per noi è un prerequisito. Ma il nostro intervento non si basa sul controllo e sulla “correzione” (portando il cane in situazioni rischiose che non è in grado di sopportare) ma sulla comprensione delle esigenze, la creazione di competenze e l’utilizzo di strategie per evitare situazioni stressanti e rischiose nel rispetto di tutti. L’obiettivo principale è migliorare la qualità di vita dell’animale e favorire una relazione più serena ed equilibrata con il gruppo familiare con cui vive. In questo senso, il veterinario esperto in comportamento lavora in collaborazione con educatori e istruttori cinofili, per garantire un percorso completo e armonioso.
Qual è la percezione dal vostro osservatorio dell’attuale relazione tra cani e persone?
Viviamo in una società piena di luoghi comuni (soprattutto per il cane) e una falsa cultura che da un lato idolatra l’animale, ma dall’altro lo mette sempre più spesso in condizioni di stress e difficoltà, oppure ci porta a riversare su di lui aspettative e pretese, con tutto quello che ne può derivare. Il cane deve appagare, curare, capire, consolare, adeguarsi a qualsiasi situazione. Si adotta non per quello che si può donare ma in base a quello che si vuole ricevere. La società si organizza affinché i cani possano andare ovunque: dai carrelli di un supermercato a una spiaggia affollata a un residence caotico, sotto l’egida di un pet-friendly. Ma che amici siamo se non riusciamo a comprendere cosa fa stare bene il nostro cane, e cosa invece per lui è davvero troppo? Cerchiamo una relazione profonda e intima, ma nell’era dei social, pur di postare una foto, permettiamo che esibizionismo e narcisismo ci portino a spingere, letteralmente, il nostro cane ovunque per averlo con noi e perché tutti lo vedano.
Cosa manca in particolare da parte delle persone nella relazione con il cane?
Non concediamo il tempo e la calma, che sono balsamo e cura per la relazione tra cani e persone, come per qualsiasi relazione, del resto: i cuccioli sono troppo agitati, gli adolescenti intemperanti e ribelli, e se non riesco ad averne il controllo c’è sempre la rinuncia di proprietà. Se c’è un problema pago qualcuno per risolverlo alla svelta, il tempo del click che mi recapita in 24 ore la maglia griffata; e se per accorciare i tempi mi propongono un metodo poco ortodosso, va bene lo stesso… basta risolvere. Non ci prendiamo il tempo di chiedere, ascoltare e capire davvero chi è il cane che vogliamo adottare, ma anche in questo caso, nell’era dei social e delle foto, lasciamo che sia un’immagine circondata da cuoricini e i pochi secondi del suo impatto, a decidere se arriverà nella nostra città, nella nostra casa e nella nostra vita. Notiamo, anche, però, che sempre più persone si fanno domande e si pongono dei dubbi, ed è lì che noi vorremmo arrivare. Vorremmo promuovere una relazione sana, generosa e rispettosa, dove il cane venga accolto, compreso e accettato.
Perché le persone si rivolgono al veterinario esperto in comportamento?
Avviene quando i care givers notano che il loro animale manifesta comportamenti indesiderati o inappropriati. Può trattarsi di reazioni aggressive o di paura, vocalizzazioni eccessive, distruttività in casa o difficoltà nella gestione quotidiana. In altri casi, il motivo della visita è meno evidente: l’animale mostra un comportamento insolito, magari mostrandosi meno dinamico o interessato alle attività proposte. Spesso i referenti arrivano dietro indicazione di educatori e/o istruttori cinofili, che ritengono che il supporto di un medico veterinario esperto in comportamento possa consentire un più efficace lavoro in equipe, finalizzato al recupero comportamentale. Altre volte è il veterinario curante a consigliare visita comportamentale, perché riconosce che dietro al problema potrebbe esserci un disequilibrio emotivo. In ogni caso, il nostro obiettivo è accogliere la famiglia, ascoltare con attenzione la loro esperienza e osservare l’animale nel suo insieme — non solo il comportamento “problema”, ma tutto il suo modo di vivere e di relazionarsi con l’ambiente esterno, con un approccio olistico. Da lì costruiamo un percorso personalizzato, mirato a restituire benessere e serenità sia all’animale che al gruppo familiare che vive con lui.
Lei è presidente di un'associazione che si chiama VIVA (“Veterinari Italiani contro la Violenza sugli Animali”) in cui si sono riuniti proprio i medici veterinari esperti in comportamento. Qual è il vostro obiettivo e la vostra mission?
VIVA ha l’obiettivo di promuovere una maggiore consapevolezza relativa al benessere fisico ed emotivo degli animali, coinvolgendo e collaborando anche con altre figure professionali qualificate e aggiornate, enti ed associazioni. E' nata perché tanti veterinari hanno sentito il bisogno di prendere una posizione decisa contro ogni forma di maltrattamento, e di promuovere il concetto di benessere integrale dell’animale che passa anche attraverso pratiche di gestione, educazione e/o riabilitazione etiche e rispettose delle esigenze specie specifiche. Attraverso l'associazione vogliamo diffondere una cultura che arrivi ovunque e che faccia comprendere che una relazione armoniosa si basa su un legame sicuro e su una buona comunicazione interspecie, laddove le emozioni dell’animale vengano comprese e accolte. Abbiamo iniziato a muoverci per sostenere e aiutare con studio e impegno associazioni, professionisti e privati, e abbiamo bisogno di iscritti per implementare perchè il numero rappresenta di fatto il fronte comune dei veterinari che dicono “basta” a ogni forma di abuso e maltrattamento. Crediamo e contiamo sulla sinergia con chi condivide i nostri valori e l’etica che portiamo avanti e soprattutto siamo convinti dell’importanza del fare rete per dare forza a idee e progetti.
Per il momento ci occupiamo fondamentalmente di cani e gatti, perché le nostre competenze specifiche riguardano queste due specie, ma contiamo, in futuro, di estendere l'interesse anche ad altre specie, con l'aiuto magari di colleghi con formazione diversa dalla nostra. Vorremmo anche contribuire alla raccolta di dati e informazioni per avere una visione reale dei problemi di attualità che riguardano il cane e la pubblica sicurezza.
Il tema che vi ha unito è stata a la necessità di far comprendere cosa si cela dietro la parola “maltrattamento” che non significa solo provocare danni fisici a un animale ma anche psicologici. Ci aiuta a spiegare questo aspetto?
Noi veterinari che abbiamo fondato VIVA vogliamo mettere a disposizione di tutti la conoscenza ed il rigore scientifico che caratterizza la nostra professione, affinché si comprenda che il maltrattamento non è più soltanto qualcosa di ingiusto ed eticamente inaccettabile, ma anche sbagliato e controproducente perché non porterà mai né a una convivenza armoniosa né alla sicurezza di nessuno. Siamo abituati a pensare che “maltrattamento” sia da ricercare in una lesione inflitta o nel relegare l’animale in un ambiente sporco, isolato e degradato, ma il maltrattamento può essere un concetto più ampio, che può andare oltre tutto questo, seppur assai deplorevole e attualmente perseguibile. Maltrattare significa privare qualcuno della libertà di esprimere la propria animalità, personalità, bisogni e desideri. Maltrattare significa anche inibire e rendere impotenti di fronte a un problema, andando a minare il rapporto di fiducia e la propensione ad affidarsi che naturalmente lega l’essere umano alle specie domestiche che lo hanno accompagnato nel corso della sua evoluzione. Quando parliamo di benessere animale, dobbiamo ricordare che non si tratta solo di “non far soffrire” un animale. Il benessere è un concetto molto più ampio, che riguarda la sua salute fisica, il suo equilibrio emotivo e la possibilità di vivere esperienze positive. Modelli come le Cinque Libertà – che includono l’assenza di fame, sete, dolore, paura e la possibilità di esprimere comportamenti naturali – e i Cinque Domini – nutrizione, ambiente, salute, comportamento e stati mentali – ci aiutano a capire cosa significa davvero garantire una buona qualità di vita: garantire benessere, quindi, significa riconoscere che ogni animale prova emozioni e vive il mondo in modo soggettivo. Significa permettergli non solo di essere “in salute”, ma di condurre una vita che valga davvero la pena di essere vissuta.
Qual è la visione della cinofilia che condividete?
Quella basata su approcci e metodi che mettano al centro l’individuo, valorizzando le sue caratteristiche, i suoi bisogni, le sue motivazioni, le sue relazioni sociali e le sue eventuali difficoltà. Lavoriamo per superare le visioni antiquate e senza basi scientifiche che vedono il cane come entità da dominare. Rifiutiamo metodi e strumenti impositivi e dannosi per il benessere psico-fisico del cane. Sosteniamo l’importanza di una relazione armoniosa e rispettosa tra cani e persone. Ad oggi, tra gli approcci più aggiornati, vi sono quelli indicati con i termini chiamati “cognitivo-relazionale”, “cognitivo-zooantropologico” o “sistemico-relazionale”. In letteratura troviamo riferimento all’approccio “psicobiologico” (Mills, 2022), che richiama il modello “biopsicosociale” già ampiamente diffuso in medicina umana, che si basa sugli sviluppi delle neuroscienze affettive, della biologia del comportamento e della biologia evolutiva.
Al di là dei termini usati, ciò che li accomuna è il considerare l’animale come portatore di cognizione, di capacità di problem solving, di competenze relazionali, di motivazioni ed emozioni. Significa cercare di capire cosa c’è dietro al comportamento manifestato, sia che sia “normale”, sia che appaia fuori dalla norma. Motivazioni, emozioni, relazioni, visione del mondo da parte del soggetto vengono valutate e tenute in considerazione. Chi opera secondo questi dettami non mira primariamente a una performance o a sopprimere o modificare un “sintomo”, cioè il comportamento manifestato. L’obiettivo è invece quello di far sentire meglio l’animale emotivamente, di farlo sentire compreso e guidato. Questo non significa non dare regole o non essere attenti alla sicurezza di cani e persone, ma focalizzarsi sul benessere psico-fisico e su quello relazionale, che sono il punto di partenza. Sulla base di ciò si possono costruire tutti i percorsi educativi, istruttivi, riabilitativi, ricreativi. Questa visione della cinofilia e della relazione cane-persona è profondamente diversa da quelle che si basano sul mero controllo e sull’inibizione.
I temi caldi della cinofilia sono quelli che riguardano alcuni argomenti in particolare. Proviamo ad affrontarne uno che da sempre divide: il collare a scorrimento. Visto da un veterinario esperto in comportamento come viene valutato in merito alle conseguenze sul cane?
La nostra associazione respinge ogni forma di addestramento che utilizzi tecniche e strumenti di coercizione, tra cui, in primis, il tanto dibattuto "collare a strangolo". In quanto medici siamo consapevoli e continuamente aggiornati su tutto quello che di negativo può derivare da un dispositivo che causa dolore e soffocamento, non solo sul piano fisico ma anche sul piano emozionale e relazionale. Laddove c’è discomfort non possono esserci serenità o benessere. La comunità scientifica è infatti attualmente concorde sulle possibili conseguenze a lungo termine dell’utilizzo di tecniche di training avversativo, ovvero che usano stimoli spiacevoli (come punizioni, correzioni fisiche o rumori forti) per ridurre un comportamento indesiderato, in particolare rispetto al benessere psicologico dell’animale.
In uno studio recentissimo, da cui abbiamo estratto un contenuto divulgativo a cura della dott.ssa Eva Ricci, vengono riportate esperienze negative come l’utilizzo di punizioni entro i 6 mesi di età che sono state correlate a comportamenti aggressivi e di paura espressi in età adulta. In uno studio di De Castro et al, del 2020, è emerso che cani normo-comportamentali, che venivano sottoposti a training che prevedesse l’uso di metodi coercitivi, manifestavano comportamenti correlabili a distress e avevano effettivamente livelli di cortisolo salivare più elevati, sia durante il training che all’esterno, rispetto al gruppo controllo (utilizzo di metodi basati sulla gratificazione dei comportamenti). E’ importante comprendere l’evoluzione e la progressione delle conoscenze nell’ambito del comportamento, del cognitivismo e delle neuroscienze nel mondo animale, per potersi affidare a professionisti competenti e aggiornati.
“Cane potenzialmente pericoloso”: è un'espressione che puntualmente emerge quando purtroppo ci sono gravi casi di cronaca che riguardano la morte di qualcuno a causa di un comportamento del cane. Cosa ne pensate di questa definizione?
Partendo dalla considerazione che il mondo scientifico risulta concorde nel considerare l’aggressività un comportamento multifattoriale e complesso, non possiamo essere pienamente d’accordo con la definizione di “cane potenzialmente pericoloso” se questa si basa unicamente sulla razza. L’idea che alcune razze siano intrinsecamente più aggressive o pericolose nasce dall’assunzione che l’aggressività sia fortemente ereditaria e che all’interno di una stessa razza vi sia poca variabilità comportamentale: un'ipotesi che la ricerca scientifica non conferma. Le legislazioni di tipo "breed-specific", come il Dangerous Dogs Act del 1991 nel Regno Unito che vieta il possesso di determinate razze (come Pit Bull Terrier, Dogo Argentino, Fila Brasileiro e Japanese Tosa), si fondano su presupposti deboli e sono state ampiamente criticate per la loro scarsa base scientifica e l’inefficacia pratica. Infatti, i ricoveri ospedalieri per morsi di cane non sono diminuiti dopo l’introduzione di tali leggi. Gli studi che hanno confrontato il comportamento tra razze soggette a restrizioni e razze non regolamentate non mostrano differenze significative né nel tipo di morso né nella gravità delle lesioni causate. In alcuni test di temperamento, il 95% dei cani appartenenti a razze considerate “pericolose” ha mostrato risposte comportamentali appropriate, analoghe a quelle di razze comunemente percepite come docili. Questi dati suggeriscono che il rischio di aggressività non è specifico di razza, ma piuttosto legato a fattori individuali, ambientali e di gestione.
Bisogna dunque valutare di caso in caso?
La ricerca più recente tende a privilegiare approcci psicometrici che valutano tratti comportamentali individuali, come l’impulsività o la sensibilità agli stimoli avversivi, offrendo una visione più coerente e misurabile delle tendenze comportamentali dei singoli cani. Questi strumenti consentono di raccogliere dati su larga scala e di considerare l’ampia variabilità presente all’interno delle razze, mettendo ulteriormente in discussione la validità scientifica delle generalizzazioni basate sulla razza. In sintesi, la razza da sola non è un indicatore affidabile del comportamento individuale. Le differenze tra razze, quando presenti, sono minime rispetto alla grande variabilità interna. Di conseguenza, un approccio legislativo centrato sulle caratteristiche e i comportamenti individuali del cane, come avviene nel Control of Dogs Act 2010 in Scozia, risulta più sensato ed efficace per garantire la sicurezza pubblica rispetto a norme che discriminano intere razze.
Il Consiglio Regionale della Lombardia ha presentato una Proposta di Legge in cui, tra le altre cose, è previsto che il patentino per detenere determinate tipologie di cani non sia obbligatorio per chi acquista animali con pedigree. Cosa ne pensate della cosiddetta PLP4 che potrebbe anche diventare legge nazionale?
Pensiamo che sia stata ideata in maniera totalmente avulsa dalla realtà e senza le necessarie basi scientifiche che ci aspetteremmo per un’idea di una simile portata e i dati attuali non forniscono motivazioni per individuare criticità razza-correlate. Siamo invece tutti concordi sul valore e l’efficacia di percorsi individuali e basati sulle caratteristiche, le difficoltà e i bisogni dell’individuo, con il suo bagaglio di vita ed esperienze, inserito in un determinato contesto sociale, familiare e ambientale. Non capiamo, inoltre, su quali dati appunto e basi si possa pensare che il possesso di un pedigree (per quanto fondamentale per molti altri aspetti) debba essere una discriminante in termini di potenziale sviluppo di disturbi comportamentali. Inoltre, non capiamo come un test ideato per tutt'altro fine possa essere predittivo di una potenziale espressione di comportamenti aggressivi, senza considerare che per alcuni soggetti particolarmente fragili e sensibili essere sottoposti alle prove del CAE-1 (il test che le persone dovrebbero effettuare per ottenere il patentino ndr) può avere un impatto traumatico e peggiorativo di parecchi problemi. In quanto medici che tutelano il benessere dei nostri assistiti questo per noi questo è eticamente inaccettabile.
Siamo inoltre perplessi su dove e come verranno reperite le risorse necessarie come le strutture dove i cani dovrebbero essere accolti se non superano il test dopo un determinato numero di prove. Non capiamo poi perché per questo disegno di legge non siano stati né ascoltati né direttamente coinvolti professionisti qualificati che da molti anni costituiscono un modello operativo valido, poiché sono specificamente formati per valutare, seguire e riabilitare cani con problemi comportamentali. Ma soprattutto manca quello che per noi è più importante per una prevenzione vera: una campagna di informazione e formazione su ampia scala, che arrivi davvero ovunque e che non può limitarsi al patentino. Educare le persone al rispetto e alla comprensione delle esigenze degli animali è fondamentale per costruire un futuro in cui umani e animali possano coesistere in armonia, in ottica One Health One Welfare. Crediamo che nella nostra società servano campagne informative semplici e accessibili perchè conoscere una specie significa anche prevenire problemi e criticità comportamentali ad essa correlate. Non può esserci sicurezza se non c’è conoscenza.
Sempre più spesso si parla di sterilizzazione. Cosa ne pensate?
In seguito alla pubblicazione, lo scorso anno, delle linee guida della World Small Animal Veterinary Association sulla sterilizzazione di cani e gatti, sempre più frequentemente i medici veterinari clinici riferiscono e richiedono una valutazione da parte del collega esperto in comportamento per valutare congiuntamente l’opportunità di procedere o meno all’intervento. Tale decisione, infatti, deve tenere conto di numerosi fattori legati al benessere fisico e psicologico dell’animale. È fondamentale ricordare che la sterilizzazione è un atto medico, la cui indicazione spetta esclusivamente al medico veterinario, sulla base di un’attenta e approfondita valutazione del singolo individuo, tenendo conto di aspetti quali la razza, l’età, le condizioni generali e delle recenti conoscenze fornite dalla letteratura scientifica.