
Si chiama "Cane pensato" ed è l'ultimo libro di Luca Spennacchio, istruttore cinofilo con approccio cognitivo zooantropologico e scrittore. Il suo libro è un vero e proprio manuale, intimo e diretto, per accompagnare le persone a vivere l’esperienza di condividere l’esistenza con un cane. Sono diversi i temi che Spennacchio tocca e che riguardano l'essenza stessa del rapporto tra l'essere umano e il suo "migliore amico", andando proprio ad analizzare le fondamenta di questa relazione millenaria e come oggi viene vissuta. Attraverso la penna dell'istruttore cinofilo, scrittore e anche fotografo che da anni è anche docente e formatore a corsi di preparazione per educatori e riabilitatori cinofili come il Master del Dipartimento dell'Università di Parma, è possibile compiere un viaggio intimo e universale, allo stesso tempo, che consente di porsi interrogativi e trovare anche risposte tanto per chi già convive con un cane accanto quanto per chi sta pensando di adottarne uno.
Chi è il "cane pensato"?
Questo concetto posto in contrapposizione al cane reale si riferisce all'immagine o alla rappresentazione mentale che le persone di una certa cultura, luogo geografico o tempo storico si costruiscono del cane, spesso discostandosi dalla sua reale natura, ossia da quella etologica della specie Canis familiaris per intenderci. La tendenza ad immaginare un cane, quello che vorremmo che fosse, quello che ci aspettiamo debba essere, un cane idealizzato che per lo più non esiste, inevitabilmente può divenire fonte di delusione quando viene confrontata con il cane reale. Il cane, in quanto specie animale, è quel che è ma nell’immaginario invece cambia in continuazione. Raramente ci si sofferma sulla sua natura, sulle sue reali caratteristiche. Le nostre aspettative sono quasi esclusivamente influenzate dall’immaginario che spesso si è costituito nelle retrovie della nostra mente, influenzato da innumerevoli fattori poco attinenti però con la realtà dell’essenza del cane, e del vivere con lui nel quotidiano.
Quali sono gli aspetti principali che una persona deve tenere in conto quando fa una scelta del genere?
Per affrontare l'esperienza di condividere l'esistenza con un cane, una persona deve considerare una serie di elementi fondamentali che impatteranno profondamente sulla sua vita e sul benessere del cane stesso, cose che vengono relegate spesso sullo sfondo quando si è accecati dal desiderio di un cane. È necessario prendere in considerazione il proprio stile di vita, i nostri impegni quotidiani, raffrontandoli con i bisogni, anche minimi, di un cane, soprattutto se parliamo di cuccioli che sono molto più impegnativi dei cani adulti sotto moltissimi punti di vista. Inevitabilmente saremo messi di fronte a delle rinunce rispetto alle nostre abitudini, dovremo cambiare qualcosa e considerare la nostra disponibilità ai cambiamenti è qualcosa di fondamentale. Questi e molti altri fattori spesso ignorati, o per lo più valutati con estrema superficialità, sono però anche complessi da immaginare, soprattutto se si è alla prima esperienza.
Cosa si può fare per valutare se si è davvero pronti?
C'è una cosa che potrebbe aiutare le persone a farsi un’idea un po’ meno fantasiosa, nonché lacunosa, della vita quotidiana con un cane: frequentarne uno assiduamente, per un certo periodo. Magari frequentare di più amici e parenti che già vivono con un cane, accompagnarli nelle loro passeggiate e se possibile condividere la gestione quotidiana del loro compagno a quattro zampe. Così si possono considerare che quegli impegni, quelle pratiche, avranno una durata (ci si augura) di almeno una decina o quindicina di anni: un giorno dopo l’altro, senza soste. Con poche eccezioni. Anche se poi il rischio può essere quello di crearsi un modello d’ispirazione che potrebbe essere fuorviante, dato che in ogni modo il nostro quotidiano sarà differente: non esiste un cane uguale ad un altro, e la soggettività del nostro “futuro” cane sarà ad ogni modo un salto nel buio. Ecco, allora possiamo chiederci se siamo disposti a tutto questo, e molto altro.
A un certo punto nel libro parla di “retorica del cane”. Di cosa si tratta?
E' l’intreccio di narrazioni e rappresentazioni culturali che attribuiscono al cane significati simbolici e ruoli sociali dalle molteplici sfaccettature. Questo concetto è fondamentale per comprendere il divario che si crea tra il "cane pensato" (l'ideale) e il "cane reale" (l'individuo concreto). Si compone di luoghi comuni, proverbi, poesie ma anche di spot pubblicitari, film, storie per bambini. Alle volte si tratta di enfatizzazioni di concetti dove caratteristiche culturali tipicamente umane sono attribuite arbitrariamente ai cani, come il concetto tanto ribadito di “fedeltà” per esempio, che poi non viene mai ben definito, ma che ha una forza retorica non indifferente. Non sostengo che la “retorica sul cane” non abbia dei fondamenti nella realtà, quello su cui mi interrogo sono le aspettative che essa genera, soprattutto se non supportata da un pensiero più concreto del convivere con un cane.
Come quando si spinge sull'idea che un "cane fa bene"?
Sì: affermare che relazionarsi con un cane possa anche essere curativo induce molte persone in difficoltà a prendere con sé un animale convinti che questo risolverà i loro problemi di solitudine, di malattia, di depressione e così via. Quando poi ci si rende conto che ciò non avviene in modo automatico, per osmosi o chissà cos’altro, e il cane presto diviene una nuova fonte di ulteriori problematiche da risolvere ecco che si arriva facilmente all’abbandono, ossia alla "cessione di proprietà" al canile di zona. Un fatto tutt’altro che raro, purtroppo. La relazione con il cane, così come la relazione con l’altro più in generale, è assolutamente qualcosa di molto importante e in taluni contesti e modi anche “curativa” ma non è come il somministrare un antinfiammatorio quando abbiamo un acciacco. E il “cane come farmaco” è un elemento della narrativa molto diffuso.
Chi sono i “cani di rimbalzo”?
E' una definizione per descrivere quei cani che sono stati adottati con estrema superficialità a causa delle aspettative irrealistiche o della mancanza di preparazione della nuova famiglia. Questi cani vengono poi ceduti nuovamente in un rifugio o canile poco tempo dopo. Ho adottato questa definizione dopo averla sentita da una collega, in quanto la ritengo perfettamente rappresentativa e drammatica della situazione dei cani arrivati nei canili del nord Italia dopo essere stati trasportati dal sud in risposta a superficiali post, emotivamente toccanti, diffusi sui social network. In pratica questi cani arrivano al nord in una famiglia e in brevissimo “rimbalzano” nei canili di zona, accompagnati da affermazioni come: “Non pensavo che fosse così impegnativo”, o ancora, “In foto sembrava più piccino” e altre simili. Oppure hanno a che fare con problemi di gestione, magari legati ad una scarsa possibilità per quegli individui di adattarsi al nuovo contesto cittadino, nel quale si sono trovati proiettati di punto in bianco, provenendo da realtà radicalmente differenti senza aver avuto alcuna preparazione e supporto adeguato per l’adattamento.
Che cosa è la terza ondata di domesticazione?
Rappresenta una trasformazione evolutiva in corso che gli scienziati ritengono stia avvenendo nei cani. Questa fase si inserisce in una storia millenaria: la prima ondata risale a circa 40 mila anni fa, l’incontro del cane con l’uomo, seguita dalla seconda nell’Epoca Vittoriana, con l’enfasi sulle nuove razze e la prospettiva zootecnica.
La Terza Onda è essenzialmente guidata dal desiderio umano di avere animali domestici che siano calmi e amichevoli, pigri al punto giusto da renderli perfettamente adatti agli stili di vita moderni e urbani. Nelle nostre società attuali, non è più richiesta la funzionalità del cane da caccia o da guardia, bensì quella di fornire conforto, adattandosi ai ritmi frenetici, agli appartamenti e alle ansie umane. Per me questo adattamento è "drammaticamente affascinante, quanto inquietante", poiché la selezione artificiale sta plasmando i cani non solo nel corpo ma anche nello spirito. A supporto di ciò, viene citato uno studio che ha individuato un meccanismo biologico specifico: i cani con particolari varianti genetiche del recettore dell’ossitocina mostrano una maggiore dipendenza e attaccamento verso gli umani di riferimento, rendendoli di fatto "inseparabili”, ma con un’accezione a mio modo di vedere assai negativa, direi “ossessivamente dipendenti”. Questo processo implica che il cane, un tempo "ponte verso la natura", viene geneticamente spinto a essere più accondiscendente e sedentario, rispecchiando e, in un certo senso, subendo le carenze ambientali e relazionali della vita moderna. La Terza Onda è, in sintesi, l'evoluzione del cane verso la figura di compagno emotivo ideale e geneticamente predisposto alla vita in clausura. Un’ulteriore perdita di possibilità per noi di avvicinarci al cane in quanto tale, che 40.000 anni fa mosse uno dei cambiamenti tra i più radicali nella nostra specie.
“Ai cani manca solo la parola”: lei spiega nel libro come e quanto comunicano, semplicemente in maniera diversa da noi. E poi riporta una frase di Wittgenstein che è decisamente il punto nodale della questione: “Se un leone potesse parlare, non lo capiremmo comunque”. E' sempre colpa del nostro antropocentrismo?
Devo dire che il termine “antropocentrismo” è interpretato esclusivamente sotto una lente molto negativa, quando di fatto è una sorta di bias cognitivo con il quale dobbiamo fare i conti e che è naturalmente insito in noi. Ma consapevoli di ciò possiamo spingerci al di là di esso, fuori dai nostri confini, per superare, faticosamente, quella limitante prospettiva sul mondo proprio grazie alla relazione con gli altri animali. La frase di Wittgenstein mi fece molto riflettere, così come la domanda che si pose Thomas Nagel: “Che cosa si prova ad essere un pipistrello?”, concludendo che non c’è modo di saperlo, che l’esperienza soggettiva non è replicabile. Ecco che invece noi auguriamo, anche inconsapevolmente, agli animali a noi cari di elevarsi alla nostra tanto decantata altezza, acquisendo quella caratteristica che ci distingue, ossia la parola. Tutto ciò rappresenta per me un vero peccato, perché questo ci impedisce di esplorare liberamente il mondo visto dal loro punto di vista, di imparare noi il loro linguaggio, di provare a metterci al loro posto per scoprire qualcosa che da soli non possiamo vedere. Inoltre, per essere un po’ ironico, non credo sarebbe poi così bello se i cani veramente iniziassero a parlare la nostra lingua, credo che molte illusioni andrebbero in frantumi: non so se siamo pronti a quella che potrebbe essere la loro spontaneità.
Il concetto di razza ha invaso anche il mondo dei cani da secoli quando invece, come ha scritto, “il cane esiste indipendentemente dalle razze”. Quanto ritiene che la società moderna sia lontana da questa conspevolezza e qual è la percezione che ha del rapporto tra cani liberi e persone nei territori in Italia dove ancora è possibile vedere questo tipo di interazioni?
Nell’immaginario di molti il cane non esiste se non è di razza, tuttalpiù ci possono essere degli incroci (meticci, bastardi), che però sono percepiti come difetti, errori, "cose" che non dovrebbero esserci. Ma la realtà dei fatti è esattamente l’opposto. Intanto il concetto di razza è fuorviante nell’immaginario collettivo: le razze in natura non esistono, sono un’invenzione dell’uomo, anche piuttosto recente, applicata politicamente per creare delle differenze e non solo tra animali domestici, anche tra esseri umani fino a non molto tempo fa. L’ossessione per la razza è qualcosa di molto recente, soprattutto se pensiamo che i cani ci accompagnano da almeno 40 mila anni e il primo Kennel Club fu fondato a Londra solo a fine Ottocento. Coincide con il periodo dell’età vittoriana e della rivoluzione industriale, con la nascente figura della borghesia che vuole fortemente la scalata sociale nei salotti della nobiltà. In qualche modo possiamo dire che il concetto di razza è più attinente alle ideologie che alla natura.
Questo tema si intreccia, soprattutto negli ultimi anni, con la presenza di cani liberi sul territorio che diviene sempre più qualcosa di raro e sempre più visto come un problema da risolvere. Il tema è complesso, e non è facile esprimersi in breve: quello che però mi sento di dire è che la nostra società ha bandito i cani liberi che sono stati una realtà per migliaia di anni e questo, a mio modo di vedere, limita la nostra possibilità di fare esperienze con questa specie, di considerare che una qualche forma di libera convivenza possa esistere. Cosa poi che è possibile sperimentare ancora in alcuni luoghi anche se sempre meno sia in Italia, soprattutto nel sud, e in altri paesi del mondo dove però il turismo occidentale sta portando oltre al denaro anche i problemi. E sappiamo quanto l’economia possa impattare con la vita delle persone, degli ambienti e degli animali stessi in un dato territorio, soprattutto quando si introduce lo spirito colonialista che non ci ha mai abbandonati. Ecco che in quei luoghi, di millenaria convivenza con il cane libero, cominciano a nascere canili e rifugi, e non solo. A mio modo di vedere stiamo perdendo un patrimonio culturale che non potremo più recuperare.
“I cani sono gli eterni bambini pusher delle nostre droghe endocrine predilette, dopamina e ossitocina”, scrive nel suo libro: quanto fa bene a noi e male a loro se non c’è una relazione sana e basata sul rispetto reciproco?
L’interazione con il cane porta con sé numerosi effetti positivi, questo la scienza ce lo ha spiegato molteplici volte, ancor di più se pensiamo alla relazione affettiva con loro. Ma anche in questo ci vorrebbe equilibrio, perché la relazione è qualcosa di complesso, a più strati, che impatta con le nostre vite in più aspetti, enfatizzarne solo uno significa da un lato sminuirne la complessità, dall’altro rendere eccessivo lo sfruttamento a solo beneficio di uno dei due partner. Soprattutto se consideriamo le deformità morfologiche indotte nei cani, per esempio nei loro crani, per renderli ancor più consoni al nostro bisogno di scimmiottare l’accudimento, e qui sto pensando alla brachicefalia che è un problema molto grave ma che fa apparire certe tipologie di cani più “infantili”, più “umani”, buffi e bisognosi delle nostre cure. In questi termini la deriva relazionale che abbiamo preso rappresenta un danno misurabile sul benessere dei cani, ma a ben guardare anche su di noi. Sta di fatto che questi elementi morfologici e comportamentali riprodotti con l’allevamento, producono in noi effetti simili all’assunzione di un analgesico, o di un oppiaceo, diminuendo la nostra capacità di valutare l’effettivo stato dell’altro (il cane) nella sua complessità.
Lei è un istruttore cinofilo di lunga data che ha sposato l’approccio cognitivo zooantropologico che ha contribuito a fondare in Italia. Ma perché ancora tanta gente si rivolge agli addestratori e non agli educatori o istruttori?
La domanda è complessa e ha a che fare con molti aspetti. Per prima cosa bisogna essere consapevoli che le differenze tra un approccio e l’altro non sono molto chiare a livello popolare, e ahimè spesso nemmeno al comparto professionale. Se è vero che la ricerca, lo studio e le applicazioni in campo pratico di una prospettiva diversa rispetto a quella che potremmo definire, per comodità, una cinofilia “classica”, basata sulla psicologia behaviorista e sulle direttrici della zootecnia, non sia ancora di dominio pubblico in modo allargato.
C’è per esempio una grande confusione tra approccio, metodo e tecniche di training, che non sono la stessa cosa. Aggiungiamo poi quello che possiamo riassumere come “marketing” e “comunicazione”, dove chi fa la voce più grossa e è bravo a sfruttare le fragilità emotive delle persone, ottiene un seguito maggiore, da una parte e dall’altra, e questo ha spesso l’effetto di creare confusione nelle persone, che non hanno spesso gli strumenti per operare una scelta realmente informata. Si gioca sulle dicotomie, sulle opposizioni a testa bassa, anche con l’utilizzo di termini “bandiera”, dove da una sponda si parla di “controllo” e dall’altra di “relazione”, senza però poi approfondire realmente queste questioni. Non perché non lo si voglia fare, ma perché il rumore di fondo della comunicazione mediatica annega tutto quanto in un calderone ribollente di animosità. Le persone allora scelgono la direzione che gli pare più semplice, più efficace, più rapida, e se vogliamo più rivestita di autoritarismo, in linea con una certa fragilità culturale che negli ultimi decenni è diventata preponderante. Quindi, penso che i processi di cambiamento culturale richiedano molto tempo prima di arrivare a informare la popolazione, che nel frattempo però vive ansie e problemi quotidiani di cui vuole liberarsi, e non solo in merito ai compagni a quattro zampe, aggiungerei. Ciò che è percepito come nuovo fa storcere il naso ai conservatori, ovviamente, soprattutto se rimette in discussione paradigmi sui quali molti hanno edificato carriere e hanno ottenuto riconoscimenti.
Ecco, le persone disinformate sono in mezzo a tutto questo marasma, e le loro scelte aderiscono più che altro a qualcosa che risulti “comodo”, in tutti i sensi. Se vogliamo tutto ciò ha a che fare con il cane pensato, che è ancora visto come un oggetto di proprietà che va “aggiustato” se crea problemi, e se qualcuno si propone come “meccanico” esperto che ci sollevi dal travaglio, beh, ben venga.
Ha vissuto da poco un lutto, la perdita di Kaos, il suo cane. C'è lui in ogni pagina del libro, anche quando non lo nomina, e di lui parla nella parte iniziale e finale dove condivide pensieri molto intimi e si confronta poi con l’attualità tanto da parlare poi del fenomeno della clonazione applicata al mondo dei cani e così via. "Kaos e i suoi peli" come hanno cambiato la sua vita?
Ho un grande interesse nella tecnologia, anche se a livello amatoriale, e nel libro mi trovo ad affrontare alcune tematiche che solo apparentemente non hanno a che fare con essa. Ma che poi, riflettendoci un po’, si intersecano con la nostra relazione con il cane. Uno di questi è il lutto e la nostra paura della morte, ossia la non accettazione della perdita. In questo caso affronto il tema della clonazione, argomento che vive popolarità alterne, e proprio mentre scrivevo c’è stato un nuovo picco di interesse su questo tema che ho messo in relazione alla perdita di Kaos. Non è stato facile per me osservare con lucidità quello che mi accade, ascoltare i miei pensieri con un certo distacco, lo ammetto. Ma il fatto è che quando si parla di soggettività, di relazione tra individui, presto si arriva alla consapevolezza dell’unicità e della irripetibilità. Clonare Kaos significherebbe tentare di negare la sua unicità e irripetibilità, provare a ripetere qualcosa che non accadrà mai più nella storia dell’universo. Questo però ci porta a riflettere sull’importanza delle relazioni che intrecciamo e di quanto valore dovremmo attribuirgli fin tanto che sono in vita, per non dover poi rammaricarsi di non aver fatto abbastanza. Una seconda chances non ci sarà data.
In tutto il libro cerca in realtà quale sia quella che definisce la “ragione madre” che ci fa voler vivere la vita con un cane. Non le chiedo di spoilerare il finale, ma è riuscito a… farsene una ragione?
Difficile, stando seduti su una spiaggia, poter definire le dimensioni del mare che si distende davanti a noi: possiamo al limite intuirne la vastità. Voglio dire che con i mezzi che abbiamo ad oggi possiamo intuire quando sia importante e vasta la relazione con il cane per la nostra specie, ma gli strumenti della ricerca scientifica credo che siano insufficienti ancora per misurarla con parametri fisiologici o indizi comportamentali, così come lo è studiare la soggettività. Stiamo facendo passi avanti, ma forse avremo bisogno di altre dimensioni per andare oltre, e chissà che nel prossimo futuro ci riusciremo. Per questo è difficile ancora tracciare i confini della ragione che ci lega così profondamente al cane, in termini di specie intendo, non a livello individuale, quindi, per rispondere alla domanda: sto ancora cercando la “bussola” che mi orienti in questa vastità.