
Quando si parla di scimpanzé, la prima immagine che spesso ci viene in mente è quella di primati molto simili a noi, intelligenti, sociali, in grado di instaurare amicizia e legami affettivi profondi. Tutto vero. Ma c'è un altro lato, più complesso e oscuro, che fa comunque parte della loro natura: la capacità di organizzare attacchi letali contro clan rivali per conquistare nuove porzioni di foresta. Una forma di violenza coordinata e brutale che ricorda, in maniera inquietante, le guerre tra gruppi umani.
Jane Goodall fu la prima a svelare al mondo il lato più violento dei nostri cugini primati, raccontando quella che è passata alla storia come "la guerra del Gombe", ma un nuovo studio pubblicato recentemente su PNAS e coordinato dall'antropologo Brian Wood dell'Università della California e da John Mitani dell'Università del Michigan è andato oltre.
Gli scienziati hanno documentato per la prima volta e con una precisione senza precedenti il legame diretto tra questi attacchi e due elementi chiave per la sopravvivenza di un gruppo sociale di scimpanzé: territorio e riproduzione. La comunità di Ngogo, che vive nel Kibale National Park in Uganda, è una delle più studiate di tutta l'Africa. E, come mostrano le osservazioni, anche una delle più violenti e aggressive.
Quando la violenza cambia la geografia della foresta

Nel corso di diversi anni di studio, i ricercatori hanno assistito a una serie di attacchi pianificati da parte degli scimpanzé di Ngogo contro gruppi rivali confinanti. Le scimmie si muovevano in coalizioni, pattugliando i confini del loro territorio e sfruttando il vantaggio numerico ogni volta che si presentava l'occasione. Il risultato di questi attacchi coordinati e ripetuti è stato drammatico: almeno 21 scimpanzé rivali uccisi in maniera deliberata.
Questi episodi sono parte di un comportamento ben noto e conosciuto come intergroup aggression, cioè aggressione tra gruppi confinanti, un fenomeno ben documentato in varie popolazioni di scimpanzé e reso celebre per la prima volta negli anni 60 dalle osservazioni di Jane Goodall, che per prima descrisse una vera e propria "guerra" tra comunità rivali nel parco del Gombe, in Tanzania, che durò per ben quattro anni.
Nel caso di Ngogo, però, i ricercatori hanno potuto fare un passo avanti importate, ovvero dimostrare che la violenza non è fine a sé stessa, ma produce conseguenze e vantaggi tangibili. Dopo la serie di attacchi, il territorio del gruppo è aumentato del 22%. Più foresta significa anche più frutti, più cibo, più spazio e meno competizione interna tra i vari individui, le famiglie e i sottogruppi che formano la comunità.
Con la "guerra" il territorio cresce, nascono più piccoli (e sopravvivono di più)

Gli effetti sulla riproduzione della comunità sono stati impressionanti. Prima dell'espansione territoriale, nei tre anni precedenti, le femmine del clan avevano dato alla luce 15 piccoli. Nei tre anni successivi le nascite sono invece state 37, più del doppio. E non è tutto. Gli scimpanzé neonati, nei primi anni di vita, sono solitamente estremamente vulnerabili e hanno tassi di sopravvivenza bassi. Prima dell'espansione territoriale, il 41% dei piccoli moriva nei primi tre anni di vita. Dopo l’ampliamento dell'area, la mortalità è crollata all'8%.
Numeri così forti e netti hanno sorpreso persino gli studiosi. John Mitani, che segue e studia questo gruppo da oltre trent'anni, ha spiegato che sospettavano l'esistenza di un nesso tra territorio e riproduzione, ma non si aspettavano differenze così enormi. Ma per escludere altre possibili spiegazioni, il team ha analizzato numerosi fattori. Una possibilità era che le femmine stessero partorendo più spesso in risposta a un'elevata mortalità infantile, come accade talvolta in altri primati, ma qui è successo invece l'opposto.
Un'altra ipotesi era legata al possibile aumento nella disponibilità di cibo nel territorio originario, ma i dati mostrano che i frutti erano stabili o addirittura leggermente diminuiti. La spiegazione più forte, quindi, è anche quella più intuitiva: più territorio = più risorse. Le femmine nutrite meglio e più in salute, entrano in estro più spesso e portano avanti gravidanze più sane. I piccoli crescono con molto più cibo e meno stress. È un vantaggio immediato e diretto.
Una finestra sul nostro passato evolutivo

Secondo Wood, questi risultati aiutano a capire e a contestualizzare meglio perché gli scimpanzé – e probabilmente anche alcuni dei nostri diretti antenati – abbiano sviluppato la capacità di coordinarsi in attacchi così violenti e letali contro i propri simili. In ambienti dove il cibo è distribuito in modo così irregolare e discontinuo, conquistare nuovi territori può fare la differenza tra la sopravvivenza e la scomparsa di un'intera comunità. La violenza, in questa prospettiva puramente biologica, diventa un investimento evolutivo molto vantaggioso.
Gli esseri umani, ha ricordato Wood, hanno sviluppato strategie culturali e sociali per gestire, ridurre o evitare questo tipo di conflitti, evolvendo comportamenti, segnali, alleanze, accordi, nome e dinamiche che permettono di uscire dalla logica in cui una situazione di guadagno o vantaggio è necessariamente pari alla perdita o ala sconfitta di un altro. Gli scimpanzé, tuttavia, sono invece ancora immersi in quel "gioco a somma zero" così primordiale.
La storia degli scimpanzé di Ngogo ci racconta quindi qualcosa che va ben oltre l'etologia, lo studio del comportamento animale e le dinamiche demografiche. Ci mostra come la cooperazione, la strategia e perfino la violenza siano strumenti che l'evoluzione ha premiato e modellato per garantire la sopravvivenza di una comunità. È successo – con forme e seguendo strade molto diverse – tanto nella nostra specie, quanto nei nostri cugini primati scimpanzé (e bonobo), così simili a noi nel bene e nel male con la complessità e, a volte, le loro contraddizioni.