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Zàmparo, il “cafone” partenopeo: qual è l’origine di questa parola del dialetto napoletano?

Nel significato il zàmparo é molto simile a quello che ormai, anche in italiano, chiameremmo “cafone”. Un termine dispregiativo ed ingiurioso che, come spesso accade per i dialetti e soprattutto per quello napoletano, ha una storia molto particolare. Ecco quale.
A cura di Federica D'Alfonso
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Il dialetto napoletano conosce svariati modi, alcuni dei quali decisamente coloriti e pittoreschi, per offendere qualcuno. Molte espressioni sono radicate nella storia di Napoli, città con un doppio volto, sempre divisa fra miseria e nobiltà: si tratta di termini di cui oggi si è dimenticata perfino l'origine ma che in passato erano simboli del modo stesso in cui la società trattava i "diversi": è il caso, ad esempio, di zàmparo.

Il zàmparo, per il cittadino napoletano contemporaneo, non è nient'altro che un personaggio dall'aspetto e dai modi rozzi: parente stretto del tamarro, é una persona che risulta spesso poco educata e per nulla adatta ad un contesto culturalmente variegato e vivace. In passato il zàmparo si sarebbe chiamato anche "villano" o, molto più semplicemente, "cafone": ed è proprio a quest'ultimo termine che si deve guardare per comprendere la storia e l'origine del zàmparo a Napoli.

Zàmparo e cafone: un'origine comune

In realtà zàmparo e cafone sono la stessa persona, considerata maleducata e rozza, e la stessa origine dall'ambito del mondo contadino suggerisce che questi due termini abbiano molto in comune. Un'origine che in realtà è in parte incerta e sulla quale, fino ad ora, é possibile fare solo ipotesi.

Come quella fatta sulla probabile derivazione del zàmparo dalla categoria agreste del "campiere", quello che nel Nord Italia era chiamato "càmparo": si tratta di una figura diffusa soprattutto nel meridione, che aveva il compito di soprintendere i lavori nei campi per conto del padrone. Si tratta di un personaggio presente soprattutto a partire dall'Ottocento e in particolar modo in Sicilia, di cui restano tracce nei romanzi di Giovanni Verga.

Ma come è giunto questo termine a Napoli? La parola, attestata a partire proprio da questo periodo, fu probabilmente diffusa nel dialetto grazie allo spagnolo e attraverso modificazioni fonetiche tipiche della commistione di parlate straniere con quelle vernacolari. Anche se l'etimologia resta oggi ancora del tutto incerta, tanto da spingere alcuni studiosi a definire questa parola "apolide" in quanto priva di un riferimento geografico e linguistico preciso, una cosa è certa: il suo significato offensivo ed ingiurioso è lo stesso della parola "cafone".

Una parola che a sua volta trova la spiegazione più plausibile nel modo in cui la città e i suoi abitanti guardavano alla realtà agreste e a tutto ciò che la caratterizzava: nell'immaginario comune infatti il "cafone" è una persona "rozza, grossolana e maleducata" per il fatto stesso di provenire da un ambiente diverso, per certi versi meno smaliziato di quello cittadino.

Tale é, ad esempio, la connotazione che si ritrova nelle opere di Ignazio Silone, il quale ha ben definito le caratteristiche dei cafoni come persone semplici ed ingenue. Anche nel caso del cafone però esiste un'ambiguità etimologica di fondo: molti dizionari la rintracciano nel verbo "cavare", nel senso di lavorare e rivoltare la terra. Un'altra ipotesi affascinante ma non accreditata linguisticamente è quella che ne vorrebbe l'origine dalla pratica dei contadini giunti dalle campagne di legarsi l'un l'altro "c'a fune" per non perdersi nella confusione cittadina. Tale origine, napoletana, non è però accettata dagli studiosi, in quanto priva di fondamento etimologico.

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