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Valentina, volontaria in Africa con Msf: “Così portiamo i medicinali a chi non ha nulla”

Valentina Albani Rocchetti è una giovane operatrice umanitaria. Lavora come logista per Medici senza Frontiere nella Repubblica Centrafricana. E’ rientrata da poco in Italia e ha raccontato la sua esperienza in uno degli scenari africani più complicati.
A cura di Mirko Bellis
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Valentina Albani Rocchetti nel centro medico di Msf a Bangui (Medici senza frontiere)
Valentina Albani Rocchetti nel centro medico di Msf a Bangui (Medici senza frontiere)

“E’ atroce vedere cosa devono subire le donne a causa del conflitto”, afferma Valentina Albani Rocchetti, 28 anni, una giovane operatrice umanitaria di Medici senza frontiere (Msf). Dieci anni fa è partita da Bergamo e non si è più fermata. Iraq, Congo e da gennaio di quest’anno nella Repubblica Centrafricana, sconvolta da una guerra civile che dal 2013 ha già provocato migliaia di morti, oltre 600.000 sfollati e più di mezzo milione di rifugiati. Nel Paese africano Medici senza frontiere gestisce la più grande maternità della capitale, Bangui. “Durante una guerra civile la donna viene declassata a oggetto e lo stupro è arma di guerra: è da coraggiosi occuparsi di maternità”, ribadisce Valentina. Un centro medico nel distretto di Castors e un altro nel quartiere musulmano dove, oltre a garantire parti sicuri e assistenza psicologica a donne vittime di violenza, deve curare anche i feriti d’arma da fuoco. Valentina è da poco ritornata in Italia e Fanpage.it l’ha raggiunta per un’intervista.

Quando hai capito che la tua strada era la cooperazione internazionale?

Sono sempre stata attratta dall’Africa e dalle storie di laggiù che leggevo e sentivo; così appena compiuti i 18 anni sono partita per la prima esperienza di volontariato in Madagascar. Con il tempo le mie motivazioni si sono rafforzate ma alla base della mia scelta c’è il senso di giustizia e di ricerca della dignità umana.

Che lavoro svolgi nella Repubblica Centrafricana?

Il logista è colui che sta nel “dietro le quinte”, permettendo alle nostre strutture, siano esse ospedali da campo o vere e proprie strutture in muratura, di funzionare al meglio. Le mie giornate a Bangui cominciano all'alba. La prima cosa che faccio è verificare che la situazione della sicurezza nei dintorni sia sotto controllo. Se la via è libera allora possiamo autorizzare i movimenti delle nostre jeep che alle 7:00 lasciano la nostra base e partono verso l’ospedale. Da questo momento per me comincia il giro di valzer: devo assicurarmi che l’approvvigionamento di acqua e carburante sia garantito ed efficiente, che i guasti siano riparati e la manutenzione assicurata. Tutto ciò con un solo obiettivo: garantire la continuità delle attività medicali.

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Quali sono gli aspetti più duri?

Lavorando in questi contesti ci si abitua alle restrizioni di movimento e di libertà, alla vita chiusi in un compound e al coprifuoco ma non ci si abitua mai alle storie atroci che ti passano ogni giorno davanti agli occhi. Come donna lavorare in una maternità durante un conflitto significa vedere cosa un’altra donna come te è costretta a subire a causa della guerra.

Quali sono stati i momenti che ti hanno segnata di più?

Uno in particolare mi è rimasto attaccato addosso. Ricordo un giorno una donna stanca e sporca che è arrivata con fatica alla nostra maternità di Castors. Questa donna era stata tenuta prigioniera per quasi due anni da un gruppo di ribelli e resa loro schiava. Non sappiamo come sia arrivata fino a noi, forse qualcuno l’ha portata fino ai nostri cancelli e lasciata lì. Ricordo di aver pensato che doveva avere la mia età, che era esattamente come me ma che per qualche inspiegabile ragione, io mi trovavo dall'altra parte. E lì, ancora una volta, ho capito che, al di là delle difficoltà e dei rischi del mio lavoro, essere presente a fianco di quella donna in quell'ospedale fa la differenza.

Quali rischi corrono gli operatori umanitari?

In quest’ultimo anno la situazione è deteriorata sensibilmente, arrivando a picchi di violenza che non si vedevano dallo scoppio della guerra civile nel 2013. Attualmente in Repubblica Centrafricana il conflitto originario fra Seleka (milizie musulmane) e Anti-Balaka (milizie cristiane) ha preso pieghe incontrollate: sono ormai decine i gruppi ribelli che agiscono ognuno con un capo diverso. Ciò ci obbliga a negoziazioni continue con nuovi e diversi capi milizia, sempre più giovani, sempre più violenti e sempre meno aperti al dialogo. Il non rispetto degli ospedali come spazi protetti mette sempre più a rischio sia gli operatori umanitari sia i nostri pazienti. Sfortunatamente non è una situazione limitata alla Repubblica Centrafricana.

Qual è la situazione in questo momento?

L’intensificarsi del conflitto soprattutto nella parte centrale e orientale sta provocando spostamenti massicci di persone ad un livello mai visto dalla crisi del 2014. I civili, traumatizzati e senza aiuti, si ritrovano intrappolati nel fuoco incrociato, cacciati dalle loro case, dai campi e dai loro mezzi di sostentamento. Le persone cercano rifugio negli ospedali, nelle chiese e nelle moschee. Altri ancora si rifugiano nella foresta per lunghi periodi. Vediamo le conseguenze di questa violenza sulla salute della popolazione civile: persone senza accesso a cure mediche, bambini non in grado accedere a campagne di vaccinazioni regolari, terapie Hiv e tubercolosi interrotte, donne incinte senza assistenza al parto.

Quali sono le difficoltà maggiori che dovete affrontare?

Nel quartiere di Castors abbiamo una grande maternità, la più grande di tutta Bangui. Siamo presenti con una maternità anche nel quartiere mussulmano PK5. La nostra è l’unica struttura sanitaria aperta 24 ore su 24 e garantisce a donne incinte, donne vittime di violenze e neonati di essere curati senza dover uscire dal quartiere, azione spesso difficile e sempre rischiosa. In questo momento essere presenti a PK5 significa subire ripetute intrusioni armate di ribelli con granate e fucili. Dover negoziare continuamente il rispetto dell’ospedale come spazio protetto in cui si entra senza armi. Lavorare in un contesto simile, oltre alle ovvie difficoltà in termini di accesso alle risorse e approvvigionamento, richiede un sforzo continuo per ricordare che siamo lì per i pazienti e che l’ospedale è un luogo che deve essere difeso e non attaccato.

Decine di donne hanno denunciato di essere state violentate. Che tipo di aiuto ricevono?

Gli episodi di violenza sessuale continuano ad essere realtà di tutti i giorni. Nelle nostre strutture le vittime di violenze possono accedere in tutta confidenzialità a servizi di supporto medico e psicologico. Le donne vengono ascoltate, visitate e affiancate nel loro percorso psicologico. Però spesso ci dimentichiamo che durante le guerre anche l’educazione subisce una grossa battuta d’arresto: le Università e le scuole chiudono per anni e ci si ritrova con una domanda enorme di determinate professioni (psicologi, medici anestesisti…) ed un’offerta pressoché nulla.

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Cosa diresti ad un tuo coetaneo che voglia diventare operatore umanitario?

Direi di pensare come una squadra: in certe situazioni non ce la farai mai da solo ed è meglio e più efficiente lavorare insieme. Ma soprattutto direi che il lavoro è duro e che non si improvvisa: bisogna farlo bene perché la buona volontà non basta, ci vuole anche la serietà intellettuale.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Sicuramente ripartire. Però per prima cosa voglio riprendere contatto con casa, riposarmi e recuperare le forze per la prossima missione.

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