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Opinioni

“Last ship”, il documentario Made in Italy che ha conquistato Hollywood

È il racconto degli ultimi maestri d’ascia del cantiere Rodolico di Aci Trezza. Il regista, Daniele Ragusa: “Ci siamo ritrovati ad essere come gli ultimi biografi di un mondo che stava svanendo dinnanzi a noi. Quello che è possibile difendere è la memoria di un sapere, storico/antropologico, antichissimo”.
A cura di Sergio Nazzaro
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Fotogramma di "Last ship" (Facebook).
Fotogramma di "Last ship" (Facebook).

Un mondo a parte. In una sola frase è possibile riassumere “The last ship”, un piccolo ma prezioso documentario ambientato ad Aci Trezza, di Daniele Ragusa con Davide Iacono e Carlo Distefano. Un mondo a parte. Il documentario che sta conquistando lentamente ma inesorabilmente selezioni ufficiali e premi importanti (tra i quali il premio del pubblico del 19th Brooklyn Film Festival) è il racconto degli ultimi maestri d’ascia del cantiere Rodolico di Aci Trezza. Un cantiere che ha rischiato di scomparire per fare spazio ad un parcheggio per barche turistiche, poi come sempre la sensibilità civica ha preso il sopravvento e sembra sventata per adesso la cancellazione di un’intera memoria civile.

Il racconto di Ragusa è silenzioso. È possibile ascoltare solo i colpi di martello, il fuoco della legna, il silenzio del mare. Con rispetto, quasi deferenza, gli autori non si pongono nel campo narrativo, ma lasciano spazio alle mani rugose di chi lavora e lotta con il legno delle barche da ben quattro generazioni. Ecco, il primo e indelebile segno è questo rispetto profondo per la tradizione. Siamo in Sicilia, ad Aci Trezza, fronte del porto, dove le mani costruiscono, senza progetti, senza computer o altro. Si fatica a mano.

"The last ship" incorona nei suoi silenzi e nella sua umiltà questo mondo. I volti sono scavati come i legni, arsi, piegati. C’è la fierezza di un’appartenenza, e la fatalità dell’incombere di altre epoche che tentano di cancellare vite e rituali. È una questione di legno e misure. Di attesa, di sigarette fumate nel mentre si saldano tutti i pezzi di barche che hanno fatto un’epoca e tentano di guardare al futuro, mentre stentano a sopravvivere. Il documentario di Ragusa è il coraggio di narrare la propria terra, anzi il mare. Luogo che muta rimanendo immobile. La stessa fattura del girato, anche se ha a disposizione oggi giorno ogni possibile variante della tecnologia, sembra volersi limitare per consegnare in altissima definizione l’immagine più reale possibile di un quotidiano lavorato e duro, ma a cui i maestri d’ascia non riescono, non possono e potranno rinunciare.

Un documentario fatto con il legno, come quello delle barche. Non con la vetroresina, il materiale assassino di una tradizione. In questo risiede la grande differenza che gli autori di "The last ship" hanno ben chiaro in testa: non si può narrare il passato, un presente precario, un’arte che rischia di scomparire se non si riduce all’essenziale anche il mezzo con cui si prova a descrivere quello che è successo e forse sta succedendo ancora. Il documentario diventa quasi un tratto di racconto scritto a matita su un foglio semplice. Non ci sono artifici per far plaudire, per strappare un’esclamazione di meraviglia, no: c’è semplicemente la vita e lascia sorpresi, ammutoliti nella sua profondità dura e affaticata.

Si rimane in piedi dentro una barca, e per quanto saldi, siamo precari. Come questo piccolo oggetto che si muove solo per la passione che anima tre ragazzi che sanno di non avere nessuno alle spalle, soprattutto un sistema culturale italiano che non sa riconoscere il merito. Poi forse un giorno vinceranno premi prestigiosi e allora, solo allora qualcuno avrà un’esclamazione di maraviglia, ma nel frattempo forse le barche non si faranno più con il legno. E sarà veramente l’ultima barca. Di tutto questo ho parlato con il regista, Daniele Ragusa.

Come nasce l'idea di dedicare un racconto agli ultimi maestri d'ascia ad Aci Trezza? 

"Con Davide Iacono e Carlo Distefano, autori assieme a me del corto, volevamo capire qualcosa in più sul rapporto uomo-natura. Siamo andati ad Aci Trezza e lì abbiamo trovato un primitivismo puro. Qualcosa che non avevamo mai visto da nessuna parte. Come regista la mia idea è stata fin da subito quella di svanire, silenziarci. Volevo che fossimo il più possibile invisibili. Ci siamo involontariamente ritrovati ad essere come gli ultimi biografi di un mondo che stava svanendo dinnanzi a noi. Sembrava come guardare un vecchio album di famiglia dove ogni volta che una pagina veniva voltata, quella non sarebbe mai più tornata indietro. L’unica cosa che potevamo fare era allora restituirlo nel miglior modo possibile, senza filtri o alterazioni".

Nei momenti trascorsi presso il cantiere Rodolico, qual è stato quello che ti ha personalmente colpito di più? 

"Certamente uno dei più emblematici è stato quando abbiamo preso il largo per le riprese all’alba. Attorno a noi c’era un silenzio infinito. I faraglioni spuntavano nerissimi lì davanti. Il mare era calmo e laggiù in fondo si intravedeva il golfo, con le sue lucette che vibravano. Mentre aspettavamo la luce giusta per girare, ci siamo avvicinati ad un pescatore. Era un vecchio di 94 anni. Faceva questo mestiere da quando ne aveva 10 e per quel che ne sapevo poteva essere uno de "I Malavoglia". Ogni mattina da una vita intera. Era evidente che oltre la linea dell’orizzonte un altro mondo ancora esisteva".

Il tuo lavoro pian piano sta ottenendo diversi riconoscimenti, mi racconti le difficoltà nel voler fare cinema in Italia e quali le sensazioni che hai avuto negli Stati Uniti?

"Provo a rispondere raccontando brevemente una storia che mi appassiona molto. In questi giorni abbiamo tutti sentito parlare di "La la land", film che ha ricevuto 14 nomination agli Oscar. Il regista del film si chiama Damien Chazelle. Damien ha 32 anni e nel 2013 gira Whiplash, un bellissimo corto che dopo vari riconoscimenti viene opzionato per un lungometraggio. Qualche mese dopo, quel film verrà nominato agli Oscar ricevendo ben 5 nomination. Potrei farti decine di esempi di questo tipo. Gli Stati Uniti sono pieni di storie come Damien. E l’Italia? Dove sono i produttori che fanno scouting? Nella mia piccola esperienza americana, i rapporti lavorativi sono fondati esclusivamente sulle tue capacità. La meritocrazia è una parola che ha una sua reale dimensione e non qualcosa di astratto. Se il tuo lavoro merita sono disposti ad ascoltarti e investire. In definitiva direi che qui prima di ogni cosa, manchiamo di ambizione produttiva (che non coincide con investimento economico), ma ovviamente spero di essere smentito domani".

Credi che la narrazione della tradizione possa difenderla, farla rivivere, o è solo ormai un soggetto buono per un documentario?

"Quello che è possibile, ragionevolmente, difendere è la memoria di un sapere, storico/antropologico, antichissimo. Riconoscere che si tratta di un patrimonio non solo di Aci Trezza ma di tutto il Paese. Penso che anche questa amarezza, che genera un passato che è ormai passato, sia uno degli elementi che più toccano emotivamente il documentario. Uno dei suoi punti forti e deboli insieme".

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Scrive reportage d’inchiesta soprattutto sulla criminalità organizzata sia italiana, sia sulla mafia nigeriana e altre di origine africana. Ha collaborato con diverse testate tra cui Repubblica, Sole 24 Ore e realizzato documentari per Current TV, Rai 3. Per il mensile Wired ha pubblicato l’esclusivo reportage sull’ultima base segreta della Nato “Proto”. Nel 2013 è stato insignito del premio “Testimone di Pace sezione informazione”. Per Einaudi ha scritto “Castel Volturno, reportage sulla mafia africana“, per Città Nuova Editrice “L’insoluto” dialogo biografico con Pietrangelo Buttafuoco. Nel 2018 ha pubblicato la graphic novel “Mediterraneo” per Round Robin Editrice con i disegni di Luca Ferrara e "Palma di Dio" per Città Nuova Editrice.
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