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Terremoto Umbria e Marche, 20 anni dopo: la rinascita dei borghi “com’erano e dov’erano”

A vent’anni dal terremoto che ha devastato Umbria e Marche i centri più colpiti hanno portato avanti un processo di ricostruzione, rispettando l’aspetto originario dei borghi storici. La ricetta per un percorso virtuoso secondo gli amministratori locali è il ruolo di primo piano affidato ai comuni, che nel 1997 hanno gestito fin dalle prime fasi il post sisma: se le comunità si sentono parte integrante della ripresa non abbandonano i luoghi terremotati. Secondo i sindaci umbri “A l’Aquila le new town sono state un errore”.
A cura di Annalisa Cangemi
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Il terremoto che ha colpito Umbria e Marche il 26 settembre del 1997 può essere considerato un modello progettuale per la ricostruzione: difficile stabilire, oggi come allora, quale sia il miglior approccio possibile dopo un sisma. Quel che è certo è che il terremoto che vent'anni fa ha sconvolto le due regioni dell'Italia centrale ha fatto in qualche modo da apripista: si sono gettate le fondamenta per una moderna modalità di intervento. La Protezione civile ha avviato un processo di acquisizione di nuove normative tecniche, insieme al ministero delle Infrastrutture. Si è cominciato a capire che bisogna evitare di appesantire le strutture, con cordoli o rinforzi con solai in cemento armato; le imprese hanno cominciato a usare materiali nuovi, come le fibre di vetro, e ad adottare accorgimenti, in fase di consolidamento degli edifici, come l'impiego di tetti in legno e di collegamenti con catene tra muri.

Nelle procedure di ricostruzione dopo il sisma del 1997 non sono stati rilevati casi di corruzione nelle gare di appalto. Il modello ha retto, si è dimostrato sano, e la gestione è stata portata avanti in modo trasparente, anche nell'emergenza. E la chiave di questo successo è stata allora il decentramento di alcune competenze ai comuni, in un sistema che ha visto una stretta collaborazione tra istituzioni e cittadini, che hanno fatto da schermo contro infiltrazioni criminose. Ma in quella stagione c'è stato un coinvolgimento diretto degli enti locali. Sono soprattutto i sindaci che hanno un rapporto diretto con i cittadini, e che possono tenere vive le comunità, che solo rimanendo unite danno un impulso alla ripresa dei centri terremotati. Oggi si preferisce invece una visione più centralistica del coordinamento post sisma. Questo modello rischia però di ingolfare la macchina burocratica, soprattutto nella fase di presentazione dei progetti (e quindi della loro approvazione), che è in mano non agli uffici tecnici dei comuni ma alla Protezione civile.

Il presidente della Regione Marche, Luca Ceriscioli, intervenendo in un convegno sui vent'anni dal terremoto, ha riconosciuto il contributo determinante dei sindaci, sottolineando l'assoluta singolarità della situazione politico-amministrativa: "Una stessa generazione ha vissuto due eventi così drammatici, come testimoniano anche gli stessi protagonisti del terremoto del '97 che ricoprono oggi gli stessi ruoli". 

Ricostruire com'era e dov'era

Ecco un po' di numeri di quel terremoto: più di 8mila le abitazioni danneggiate, 3200 sfollati, più di 1000 i beni monumentali e artistici lesionati. Il modello che allora si è scelto di seguire è stato quello della ricostruzione "com'era e dov'era", riprendendo gli edifici crollati, per ripristinare il più possibile l'aspetto originario dei borghi, scongiurando il progressivo abbandono da parte degli abitanti. E in alcuni casi l'esperimento è riuscito; in altri casi, vent'anni dopo, si possono evidenziare le criticità. Perché gli accorgimenti tecnici, e anche burocratici, da seguire per rimettere in piedi fedelmente un borgo antico sono sicuramente più impegnativi e richiedono tempi più lunghi rispetto alla creazione di un agglomerato urbano del tutto nuovo. Ma dopo un sisma la ricetta migliore, secondo gli amministratori locali che hanno seguito il percorso di ricostruzione di questi borghi storici, è sicuramente quella di riaprire i centri il prima possibile, perché far ripartire l'economia, dopo aver tenuto un paese bloccato per molto tempo, è sempre più complicato.

A vent'anni di distanza ci siamo posti due domande: quale modello di ricostruzione funziona di più? Come li ritroviamo oggi quei centri abitati interessati dal sisma?

Esempi di ricostruzione a confronto: il caso Nocera Umbra

Il caso di Nocera Umbra ha fatto scuola. Un borgo quasi del tutto inagibile, zona rossa per due anni, è stato interamente ricostruito, grazie a importanti finanziamenti pubblici (l'Osservatorio sulla Ricostruzione dell'Umbria ha calcolato per la Regione una spesa di 5,106 miliardi di euro). Qui dopo la scossa delle 2 e 33 di magnitudo 5.5 e la più forte delle 11 e 40, di magnitudo 6.0 di quel 26 settembre, l'83% della popolazione ha lasciato la propria abitazione. Oggi alcune centinaia di abitanti, circa 300, sono tornati nel centro storico. E il fenomeno nuovo che si registra è l'interesse da parte degli stranieri, che hanno acquistato gli appartamenti appena ristrutturati, attratti da prezzi convenienti. Prima del terremoto abitavano qui 600 persone, molti dei quali erano però anziani e sono morti prima di poter rientrare nel paese.

Una cittadina molto fortunata Nocera Umbra, perché qui non c'è stata nessuna vittima. Ma l'intero centro storico è stato chiuso e recintato, diventando per due anni zona off limits, controllata da militari, che non consentivano l'ingresso ai civili, proprio perché l'intera area era pericolante. Da allora è iniziato un lento processo di ricostruzione. Ma invece di seguire il modello delle "new town", cioè delle casette posizionate in un luogo diverso dal centro, utilizzate per esempio a L'Aquila, si è cercato di restituire Nocera Umbra nella sua forma originaria.

"Il centro storico di Nocera Umbra è esattamente com'era vent'anni fa, è stato ricostruito fedelmente – ha spiegato il sindaco Giovanni Bontempi – "Il nostro è un borgo medievale moderno e sicuro. Anche qui, come nel caso del sisma del 2016 di Amatrice, nella prima fase dell'emergenza ci sono state strutture provvisorie, come le tende, le roulotte, i container, poi le strutture di legno e infine sono state costruite delle case popolari, in alcuni casi ancora utilizzate. Ma si è deciso di ricostruire questo borgo com'era e dov'era perché dovevamo preservare la bellezza dei tipici paesi piazzati in cima alle colline umbre. Ci sono più di trenta nuclei nel nostro territorio, che sono stati ricostruiti con lo stesso aspetto che avevano nel '97, mantenendo la loro identità. Altrimenti non avrebbe avuto senso l'intervento di recupero". 

Nocera Umbra si presenta così al visitatore: una lunga strada che sale verso la piazza principale, dove è abbarbicato il palazzo comunale, e che continua poi a destra verso la torre simbolo della città, crollata nel sisma del 1997. Della vecchia torre era rimasta in piedi solo una parete, ma la sua ricostruzione è stata il punto di partenza dei lavori. Le facciate delle case sono imbiancate, ripulite, ma sulla maggior parte degli edifici è affisso un cartello con la scritta "Vendesi" o "Affittasi". Molte palazzine sono disabitate, e quei pochi negozi che hanno riaperto sono vuoti. Dopo le scosse dell'anno scorso, iniziate con il sisma del 24 agosto, i flussi turistici nella Regione si sono ridotti, anche se il territorio umbro è stato colpito solo marginalmente nel 2016.

"Già prima del terremoto molti edifici erano già "seconde case" per i nocerini, lo spopolamento dell'Appennino era già iniziato. Le attività commerciali stanno gradualmente riprendendo, le chiese sono di nuovo aperte, gli uffici comunali da più di dieci anni sono stati spostati nel centro della città" – sottolinea Bontempi – "Stiamo cercando di ripartire sfruttando le nostre ricchezze, le acque minerali, l'aria, l'argilla bianca. E stiamo creando opportunità di investimento, dopo il dramma del '97. Non tutta l'Umbria è stata interessata dall'ultimo terremoto del 2016, eppure abbiamo risentito del messaggio mediatico distorto che è stato dato". 

Ma il territorio di Nocera Umbra negli ultimi dieci anni ha subito anche il contraccolpo di un secondo terremoto, la crisi del lavoro: qui c'era sede dello stabilimento umbro che produce elettrodomestici, l'ex Antonio Merloni, che però ha riassunto solo 300 dipendenti su 1600.

Un esempio riuscito di ricostruzione: Foligno

A Foligno, uno dei centri più danneggiati nel '97, le cose sono andate diversamente. Il sisma ha colpito duramente la zona collinare e in parte il centro storico (ma non in modo devastante come è successo a Nocera Umbra). La periferia di Foligno invece è stata danneggiata in modo lieve. La cittadina oggi è viva e attrae le attività commerciali, anche se qui, come nella vicina Nocera Umbra, si è avuto un calo delle visite, come conseguenza del terremoto di agosto e ottobre 2016 nell'Italia centrale.

Dopo gli eventi sismici del 2016 qui non si sono riscontrati danni gravi negli edifici, anche se tutte le chiese sono state dichiarate inagibili. Ma sicuramente quelle ultime scosse hanno inciso psicologicamente sugli abitanti, costretti a rivivere i momenti angoscianti di vent'anni fa, quando il terremoto ha buttato giù la cima del campanile della cattedrale. E così quest'anno sono stati richiesti più di 3mila sopralluoghi alla Protezione civile per verificare l'agibilità degli edifici.

"Dopo il sisma del '97 i comuni svolsero un ruolo attivo – dice il sindaco di Foligno Nando Mismetti – "Questa è la differenza tra la nostra gestione dell'emergenza e della ricostruzione nel 1997 rispetto all'approccio attuale. Il governo dei processi è incentrato sulla Protezione civile nazionale e regionale, con un ruolo di secondo piano dei comuni. Anche se le aree interessate nel '97 erano molto più ristrette rispetto all'ultimo terremoto. Ma questo modello che mette le amministrazioni locali in secondo piano non funziona". Questa è l'opinione di Mismetti, che fa il confronto tra la gestione del sisma di Umbria e Marche di vent'anni fa e lo sciame sismico del 2016, che ha toccato quattro regioni. Gli sfollati l'anno scorso sono stati sistemati anche in strutture ricettive, come gli alberghi della costa adriatica di San Benedetto del Tronto. Mentre nel '97, ricorda il sindaco, la risposta al terremoto fu tempestiva: in tre mesi il 70% della popolazione di Foligno, che non aveva trovato una sistemazione autonoma, è stato collocato nelle aree attrezzate del territorio, nei container.

"Abbiamo scelto di risollevarci partendo dall'identità di questa città, perché la comunità ha bisogno di ritrovarsi nel lavoro, nelle scuole, ma non può ripartire senza radici"- spiega Mismetti, parlando del modello "com'era e dov'era" adottato a Foligno – "Se i cittadini non si sentono parte attiva vanno via. Ma la risposta deve essere immediata, le persone non possono aspettare decenni. A l'Aquila è stato commesso l'errore di ignorare il centro storico, e le conseguenze le stiamo ancora pagando". Vivere in questi centri significa convivere con il rischio sismico, e allora è necessario un adeguamento degli edifici, non si può intervenire solo dopo l'emergenza: "A Foligno ci sono 10mila studenti – dice il sindaco – Ma noi come amministratori locali dovremmo essere in grado di proteggere i nostri cittadini, mettendo in sicurezza le scuole, servono risorse ad hoc. Senza soldi noi sindaci siamo spesso impotenti". 

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