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Fate largo ai Sacramento Kings: un incantesimo lungo 17 anni sta finalmente per finire

Un anno dopo la discussa trade Haliburton-Pacers la franchigia californiana vede finalmente la luce in fondo a un tunnel lungo 17 anni.
A cura di Luca Mazzella
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Fate un gioco: cercate online la classifica della Western Conference di quest'anno in NBA. Confrontatela con quella di un anno fa, e dell'anno prima ancora, e così via a ritroso fino al 2006, al primo round dei Playoffs a Ovest. Ecco, siete arrivati esattamente all'ultima partita, 5 maggio di quell'anno, giocata dai Sacramento Kings in post-season: un digiuno lungo 17 anni che ha reso, in tutto questo periodo, la franchigia californiana una sorta di zimbello della lega, tra insuccessi sportivi e pessima gestione manageriale che nel tempo ha portato a diversi avvicendamenti in panchina e nel front-office, oltre a clamorosi autogol in sede di draft, come il peccato originale di aver preferito nel 2018 Marvin Bagley III a Luka Doncic.

Il tutto per una squadra che, fino allo scorso febbraio, non è mai stata in grado di raggiungere le prime 8 posizioni della Conference da quel lontano 2006, regalandosi annate su annate deludenti che hanno avuto l'effetto di allontanare sempre più i tifosi dall'arena. Bene, ora che conoscete il passato potete paragonarlo alla situazione attuale: solo i Denver Nuggets e i Memphis Grizzlies oggi hanno un record migliore dei Kings a Ovest, 35-25 nel momento in cui scriviamo, con un margine sopra la linea di galleggiamento del 50% di 10 partite, che non si vedeva dal 2004-05. Terzi a Ovest, titolari del miglior attacco NBA per punti segnati (120.7 a partita) e del più alto offensive rating nella storia della lega (118.8) e, per distacco, squadra più divertente da vedere.

Opera di Mike Brown, il nuovo coach scelto in estate e scippato ai campioni NBA dei Golden State Warriors, dove ha messo l'anello al dito da assistente di Steve Kerr ed esperto della difesa nella Baia, ma soprattutto di una serie di mosse coraggiose, a tratti folli, completate in estate tra draft e firme in free-agency che hanno costruito il miracolo Kings.

L'inizio della rivoluzione

Tutto ha avuto inizio l'8 febbraio di un anno fa, quando a sorpresa, tra il malcontento dei tifosi e le polemiche di tanti addetti ai lavori, la franchigia californiana ha deciso di privarsi dell'astro nascente Tyrese Haliburton – scelto un anno prima al draft NBA e giocatore destinato per molti a diventare l'uomo attorno al quale costruire il nuovo progetto del team –  affiancandolo a Buddy Hield e Tristan Thompson per mettere le mani sull'All-Star Domantas Sabonis. Una mossa accolta da tutti come scellerata, azzardata e potenzialmente devastante, con la scelta dell'impatto immediato del lituano al posto dello sviluppo di un esterno che – come d'altronde di sta vedendo quest'anno a Indiana – aveva tutto per imporsi come uno dei migliori della lega. E forzata al grido di "win-now", vincere-ora, diventato nel giro di poche ore dallo scambio il motto per prendere in giro l'ennesimo grossolano errore del front-office.

Che però, nella persona del GM Monte McNair, aveva davanti un piano molto più chiaro che andava completato nel giro di pochi mesi, come poi fatto. In estate, infatti, al pick and roll Fox-Sabonis spina dorsale del gioco offensivo della squadra, la dirigenza ha sapientemente scelto di affiancare giocatori abili senza palla, dalla scelta numero 4 del draft Keegan Murray, alla trade per il tiratore degli Hawks Kevin Huerter, fino alla firma in free agency di Malik Monk, rigeneratosi nell'anno ai Lakers e tra i più ambiti esterni disponibili su mercato.

Mosse a dir poco azzeccate che hanno contributo a costruire la macchina offensiva più efficace mai vista in NBA, con una produzione offensiva figlia di un basket divertente, veloce, sempre finalizzato a costruire il miglior tiro possibile e condotto nel migliore dei modi da quel De'Aaron Fox messo con convinzione al centro del villaggio nello scetticismo generale, e oggi diventato uno dei giocatori più clutch della lega, fino a meritarsi il primo posto nella graduatoria provvisoria che anticipa proprio l'esito sul premio che si assegnerà al giocatore più a sangue freddo dell'anno.

E come ciliegina sulla torta, il nome di Mike Brown, che ha portato esperienza, entusiasmo e tanti principi offensivi assimilati negli anni di Golden State, con utilizzo massivo del lungo come perno delle azioni dal post-alto (Domantas Sabonis oggi, Draymond Green nella Baia) e la gravity di Fox in penetrazione sfruttate al massimo per generare spaziature eccellenti per i giocatori disposti lungo il perimetro.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: dal pirotecnico 176-175 di due notti fa contro i Los Angeles Clippers, secondo miglior punteggio complessivo nella storia, alle 16 gare oltre i 130 punti segnati, al Golden 1 Center perennemente sold-out al grido, altra novità di enorme impatto quest'anno, di Light The Beam, letteralmente "Accendi il fascio (di luce)", ovvero l‘enorme raggio viola che dall'arena illumina i cieli della città dopo ogni successo casalingo della squadra. Una scelta accompagnata dall'ironia di molti e trasformatasi rapidamente in abile mossa commerciale cascata proprio nel primo vero anno di soddisfazioni dopo un letargo infinito.

Con le decisioni estive che daranno nuovo slancio al progetto – c'è Sabonis da estendere e Harrison Barnes in scadenza, due quinti degli starters – l'obiettivo di McNair può dirsi nel frattempo (quasi) raggiunto: da zimbelli dell'NBA a terza forza a Ovest, per rompere un incantesimo che ormai da 17 anni vede intrappolata la franchigia nella mediocrità. La post-season sta arrivando e sarà il giusto premio alla svolta culturale voluta dalla dirigenza, salutata tra i sorrisi generali (anche da parte di chi vi scrive), e oggi a ragion veduta una delle più incredibili rivoluzioni mai attuate per ribaltare totalmente la narrativa su una squadra. Oggi, il coro Light The Beam viene cantato anche dai tifosi ospiti e accolto con timore nelle arene di mezza lega.

La vera vittoria, quella della credibilità, è già stata ottenuta. Non resta che scoprire cosa riserverà il futuro prossimo di un roster giovane, affiatato e che sembra credere nella propria forza più che mai. I Sacramento Kings, dopo un anonimato lungo quasi due decenni, vedono finalmente la luce.

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