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La Fate Ignoranti, Özpetek non vale La serie: tutti i motivi per cui rimpiangiamo il film

Troppi cliché e pochissimo pathos, la serie Le Fate Ignoranti è una versione immotivatamente diluita del meraviglioso film originale, in cui Ozpetek riuscì nell’impresa: rese immortali i protagonisti e fece recitare (bene) pure Gabriel Garko.
A cura di Grazia Sambruna
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Nel 1817, il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge coniò l’espressione “sospensione dell’incredulità”. Ovvero, in parole povere, il motivo per cui il lettore pur rendendosi conto di alcune falle (logiche o di verosimiglianza) le mette da parte per godersi una bella narrazione. Questo valeva per le opere letterarie nel XIX secolo e vale tuttora anche per i film e le serie tv di oggi. Purtroppo, negli ultimi anni, forse per l’avvento delle piattaforme che ne hanno moltiplicato l’offerta o magari perché la maggior parte degli sceneggiatori sembra aver deciso di sacrificare l’amor di sceneggiatura sul sacro altare del mutuo, l’“incredulità” dello spettatore si ritrova presa a cazzotti da innumerevoli produzioni.

È anche il caso, purtroppo, de Le Fate Ignoranti – La serie, a piede libero su Disney + da una settimana e prima fatica seriale del regista turco Ferzan Özpetek che nel 2001 rilasciò l’omonimo film (valse a Margherita Buy un David di Donatello come Miglior Attrice Protagonista) mentre oggi lo diluisce in otto episodi. Andiamo ad analizzare la via crucis che, di stazione in stazione, non ci ha condotti alla resurrezione.

La storia: per chi nel 2001 fosse in gita su Marte, Le fate ignoranti narra le vicende di Antonia, moglie che si ritrova vedova nel giro di un camion che una brutta sera stira il facoltoso marito sulle strisce pedonali. La consorte, già l’indomani, scopre che il coniuge aveva un’altra donna, la signorina Mariani, che poi scopre chiamarsi Michele. Un dramma dolce-amaro, un’intensità inarrivabile per una storia che è rimasta nel cuore di milioni di spettatori, per tutta la sua ora e quarantacinque minuti di durata. Oggi, la stessa vicenda viene diluita in otto episodi e quindi altrettante ore e questo fu il primo motivo, già dall’annuncio del progetto seriale, a innescare una certa diffidenza epidermica. Ma c’è di più.

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Andiamo spediti: a questa versione de Le Fate Ignoranti è stato tolto il pathos, il dramma. E per una storia che parte da un lutto feroce e improvviso, è già tutto dire. Se lo schiaffo di Margherita Buy (la fu Antonia) a Stefano Accorsi (il fu Michele), nel momento della rivelazione della tresca col marito, risuona ancora nella memoria emotiva di chi aveva visto e amato il film di Özpetek, il moscio buffetto sulla guancia che flebilmente Cristiana Capotondi concede a Eduardo Scarpetta nella medesima scena è risibile.

Non stupisce, infatti, che un paio di sere dopo i due siano praticamente già amici per la pelle. E non stupisce soprattutto perché, ovvietà, la Capotondi non è l’interprete originale. Se la Buy, infatti, appare sempre pacata e compita ma risulta evidente il vulcano di emozioni che ha dentro, l'Antonia di Capotondi si mostra atarassica. Con tono sibilante come a non voler disturbare, cifra stilistica delle produzioni italiane, bisbiglia borghese turbamenti interiori e sentimenti contrastanti che paiono piccoli problemi di cuore, di quelli che si collezionavano sulla Smemo. Ecco, in realtà tutti i personaggi, nonostante lutti, tragedie e ingiustizie sparse, hanno un’intensità emotiva pari a quella che si poteva sfogliare tra le pagine dei diari delle superiori, quei tipici messaggi sottili, in uniposca fucsia. Didascalici a dir poco, questi 30-40enni non hanno altro da pensare nel corso delle loro giornate che non sia l’amore. O il sesso. Ché lavorare stanca, si vede.

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E anche per questo Le Fate Ignoranti – La serie non è verosimile. Il protagonista Massimo presta servizio come assistente presso il magazzino di un amico pittore. Si può permettere un attico arredato di design, per carità, magari non nella zona più chic della capitale, con terrazza supersonica e vista mozzafiato sulla città. Un posto molto Instagram, certo, ma l’impressione è che tutti noi dobbiamo esserci persi quell’annuncio della vita su lavoricreativi.com. La incongruenze di Michele, proseguono per tutta la durata della serie: assistiamo basiti alla telefonata che il personaggio, interpretato dal pur bravo Eduardo Scarpetta, fa a un amico per chiedergli: “Senti, com’è che si chiama quell’app di incontri di cui mi parli sempre?”. Ora, la serie ci sfida a credere che uno stagista trentenne che vive nella capitale possa abitare in una reggia capienza decine di persone e, soprattutto, non abbia mai sentito parlare di Tinder o, in questo caso, Grindr. Davvero? Nel 2022? Cose turche.

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Di sceneggiature incredibili e dove trovarle, fa parte anche tutto il coro di amici di Michele: poco più che macchiette relegate a un ruolo destinato a ripetersi stancamente per otto estenuanti episodi, sono come generatori automatici di battute, magari anche sferzanti, sì, ma sempre sullo stesso tema: se stessi. O almeno quel poco di loro stessi che è stato scritto sul canovaccio di sceneggiatura. Bozze senza identità, e non per ragioni di gender, non è un caso che a funzionare siano soprattutto le scene corali dove ognuno dice la propria punchline e “Defendemos la alegria”. Ma “allegria” di che? Considerato che sono tutti reduci da un lutto e da personali sballottamenti emotivi da far tremare la stabilità interiore perfino di un Buddha.

Esempio principe, Annamaria, interpretata da Ambra Angiolini: anche lei residente in una mansion extralusso (quotidianamente fa colazione con uovo di quaglia su letto di zucchine e toast gourmet salmone e avocado impiattati che manco da Cracco) nonostante nella vita faccia la cartomante, per altro a nessun cliente al di fuori della sua cerchia di amici che serve aggratis, scopre il tradimento della fidanzata con cui sta da quindici anni. Si turba quel poco, incolpa Urano dell’accaduto e via: accetta di condividere l’amata con l’altra donna per poi pentirsene e darle un ultimatum che suona più o meno così: “Se non ti fai vedere domani in piazzetta alle ore X, con me hai chiuso”. Vero, quest’ultima frase dovrebbe essere scritta con le “K”, come sul Nokia 3310 quando si era giovani e si risparmiavano caratteri per non sprecare la Summer Card. 

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La gestione dei sentimenti non è mai adulta, matura ma nemmeno impetuosa, trascinante, coinvolgente. Tutto è cristallizzato in un’opera visivamente ineccepibile, ma con cui è impossibile avere uno scambio. Provate a fissare per otto ore una piastrella del bagno, pur cesellata alla perfezione da maestri ceramai faentini. Ecco. Ne Le Fate Ignoranti – La Serie è tutto bello, tutto giusto, tutto coloratissmo e volemose bene che la vita è una, corre veloce. Gli omosessuali qui descritti non si turbano mai davvero, elaborano il lutto buttandosi in edonistiche orgette con sconosciuti o ascoltando Mina insieme agli amici: sono sempre irrimediabilmente sexy.

Su di loro, aleggia il fantasma di Massimo, marito traditore di Antonia e compagno di Michele, interpretato da Luca Argentero: ogni puntata inizia con un suo breve monologo Fabio Volo style in cui ci spiega la vita. Lui, proprio. Quello che ha creato tutto sto impiccio e ora, da fantasma, compare di quando in quando, non visto, in alcune scene (comunque, troppe): non fa che sogghignare fastidiosamente sotto i baffetti. Perché?

Il miracolo del film originale, qui non si è ripetuto: via il pathos, via lo spessore, assente una direzione degli attori che li renda in grado di regalarci personaggi immortali. Nel lungometraggio del 2001, è bene ricordarlo, recita anche Gabriel Garko nel ruolo di Ernesto, malato di AIDS e morente. Non abbiamo speso il termine “recita” invano: Özpetek riuscì nell’impresa di tirar fuori da Il Bello delle Donne un’intensità che nessuno, prima e dopo, ha sospettato potesse avere. Abbiate cura del vostro tempo, che la vita è una, corre veloce e volemose bene: rivedetevi (o recuperatevi) il film originale, sempre su Disney +. Ci si vede alla prossima festicciola in terrazza, free entry (con vino bio). Basta crederci.

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