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Grey’s Anatomy 18 è accanimento terapeutico: il deludente finale di una serie ormai in coma

Il finale di Grey’s Anatomy 18 tra emorragia di ascolti e attori in fuga. La stagione 19 è già in lavorazione e tutto ciò, più che amore, sembra un accanimento terapeutico.
A cura di Grazia Sambruna
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Grey’s Anatomy è arrivata alla puntata 400. La stagione 18 del medical drama seriale ideato da Shonda Rimes è giunta alla sua conclusione, con gli ultimi due episodi a piede libero dallo scorso 22 giugno su Disney +. È tutto finito? No, purtroppo. Il 6 ottobre debutteranno su ABC i primi minuti della diciannovesima e anche soltanto a livello di cifre è oramai cristallino che Shonda, da qualche anno “solo” produttrice e non più showrunner della sua creatura abbia perso ciò che rendeva questa serie cult unica nel suo (oramai abusatissimo) genere: l’amore. Non inteso come flirt, smanacciate e grandi passioni in corsia. Ma proprio in quanto affetto e rispetto verso ciò che Grey’s Anatomy è stato e ha rappresentato. E che oramai da tempo ha lasciato il posto a una ferale spossatezza. Da parte di tutti: autori sempre più pigri, pubblico in ritirata e attori col piedino sulla porta del progetto. Com’è potuto accadere?

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Il crollo degli ascolti in America è stato considerato fisiologico per una produzione che procede senza sosta dal 2005 e che, al netto dell’innesto di nuovi personaggi, ha con ogni probabilità detto tutto ciò che aveva da dire e medicato tutto ciò che aveva da medicare. Che il flop, però, non sia “fisiologico” ma grave e irreversibile, è sotto gli occhi di chiunque. A livello globale. Si pensi al caso della Francia in cui TF1 ha interrotto la programmazione di Grey’s Anatomy 18 alla quinta puntata, sostituendola in corsa con DOC – Nelle tue mani. Luca Argentero mette KO Ellen Pompeo all’interno della linea temporale in cui viviamo. Ok. Al netto della peculiarità dell'evento in sé, ciò significa anche che l’interesse per il medicaldramasia ancora vivo e vegetissimo. È proprio l’anatomia targata Grey a versare in coma irreversibile.

Cosa non funziona (più) in Grey’s Anatomy? Di certo quasi vent’anni di programmazione non aiutano lo show a proporre freschezza. Ma la colpa non è da attribuirsi alla nuova showrunner, designata da Shonda, Krista Vernoff (Private Practice, Streghe). È solo che, alla lunga e con la nascita di tanti altri titoli affini (New Amsterdam, su tutti) siamo oramai assuefatti da medici che devono prendere decisioni difficili. E flagellati dalle loro beghe sentimentali, sempre uguali. Abbiamo capito quanto sia difficile, abbiamo capito che lasciarsi fa male. Insomma, abbiamo capito davvero tutto.

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Risulta sempre estremamente complesso dire “basta” a una storia d’amore. Anche quando l’amore, evidentemente, non c’è più. Il legame affettivo che Rhimes nutre per Grey’s Anatomy, non si discute: per lei è stata la prima serie in assoluto. E pure quella che le ha cambiato la vita. Prima di questo progetto, era al massimo stata responsabile, nel 2002, del primo e unico film con Britney Spears attrice protagonista: lo scult Crossroads.

Tre anni dopo, andò in onda la première di Grey’s Anatomy e la preparazione della serie portò via a Shonda mesi e mesi di lavoro durissimo, maniacale, al limite dell’ossessivo: nel pitch di presentazione descriveva i personaggi a partire da ciò che ci sarebbe stato nei loro armadietti. Nella testa dell'aspirante showrunner, insomma, c'era già l'intera planimetria strutturale e sentimentale del Seattle Grace Hospital. Per quanto, inizialmente la serie dovesse chiamarsi semplicemente Surgeons, c’era già tutto: "Dormi, mangi e respiri chirurgia”, scriveva Shonda. In questa diciottesima stagione, invece, si dorme e basta. Con la chirurgia e gli amorazzi a fare da filtro fiore per le notti calme e i sogni belli in un costante e infinito déjà-vu. "Avevo scritto otto diversi finali", ha rivelato di recente Rhimes, "ma sono già tutti andati in onda. Non so come si concluderà questa storia". Confortante.

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Grey's Anatomy è letteralmente diventata ciò per cui all'inizio, al netto degli Emmy, veniva presa in giro: lo spauracchio di ogni fidanzato che, prima o dopo, sapeva che si sarebbe trovato incastrato dalla propria dolce metà a fare binge del medical drama con protagonista Meredith Grey, una Carrey Bradshaw in corsia divisa tra bisturi e tanti tantissimi sospiri amorosi. I suoi voice over che aprono e chiudono (quasi) ogni puntata con riflessioni sul senso della vita sono sempre stati dalle parti dello stucchevole. Ma, se non altro, un tempo erano scritti con dignità. Oggi sono dei flash della durata di una storia Instagram e via verso il nuovo paziente malato di un morbo rarissimo che avremo incontrato già otto volte nelle ultime 399 puntate.

Nemmeno la stessa Meredith, Ellen Pompeo, si fa più vedere volentieri in scena. Con la scusa del fatto che il suo personaggio sia impegnato in una relazione a distanza con la soporifera fiamma di ritorno Nick Mars, il timone passa alle nuove leve. E la china rovinosa che si prende quando una serie tv coi medici cerca di cambiare i suoi storici main character la ricordiamo bene dai tempi dello spin-off di Scrubs (una sola stagione, per fortuna, ma comunque mai davvero perdonata dai fan).

Il cliffhanger finale che dovrebbe lasciarci appesi fino a ottobre prossimo con lo sbarco della stagione 19, poi, è risibile: Meredith abbandonerà o non abbandonerà il "suo" Seattle Grace Hospital? Ma andasse pure serenamente in pensione, si odono rispondere tra i denti orde di telespettatori da ogni dove. How I Met your Mother, Dexter, per non parlare di Game of Thrones: ai finali sciapetti e deludenti siamo vaccinati oramai da tempo. Calare il sipario sarebbe l’ultimo possibile gesto d’amore verso una serie a cui niente potrà davvero togliere il valore che ha avuto. Se non l'accanimento terapeutico. Da anni, i titoli di coda, quelli definitivi, vanno implorando “Prendi me, scegli me, ama me”. E sia, per favore. Soprattutto, per amore.

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Sto scrivendo. Perennemente in attesa che il sollevamento di questioni venga riconosciuto come disciplina olimpica.
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