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Gabriele Muccino: “Gli attori vengono prima di tutto, in Emma Marrone ho trovato grande autenticità”

Il regista si racconta in un’intervista a Fanpage.it, reduce dall’ultima fatica della seconda stagione di A casa tutti bene: “Ho imparato molto dal linguaggio televisivo”.
A cura di Gianmaria Tammaro
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Gabriele Muccino è un autore con una visione precisa, personalissima, di quello che fa. Una visione che viene alimentata dalla paura di sbagliare. Che ha una sua mitologia di personaggi e persone, e che si fonda su alcuni elementi essenziali. Quando ne parla sembra un esploratore che, di ritorno da un lungo viaggio, prova a raccontare quello che ha visto e vissuto, ma che solo in parte, nella limitatezza dei suoni e delle pause, riesce a rendere. Non è colpa sua: è la creatività che, delle volte, supera la realtà e la sua bidimensionalità comunicativa. Muccino mette in scena la famiglia, perché è nella famiglia che il nostro immaginario – come italiani, come persone – è radicato. I suoi personaggi urlano, si strattonano e si sovrappongono perché è così che ci comportiamo. Il suo non è un cinema-verità, sia chiaro: è un cinema, però, che resiste e reagisce a determinate regole. Non le evita: le segue. La capacità di raccontare di Muccino è una capacità muscolare, tesa, nervosa, pronta a rispondere a ogni singola azione e decisione; è dinamica, mai rigida, sul limite dell’istintivo. A casa tutti bene, la sua serie, disponibile su Sky e NOW, in onda ogni venerdì, non fa eccezione. O meglio: fa eccezione, ma in un modo logico e sensato, profondamente “mucciniano”. C’è un fil rouge tra le sue opere, ed è una parola.

Fin dai tempi del tuo esordio con Ecco fatto, il cognome Ristuccia ritorna spesso. Sei scaramantico?

No, la mia non è scaramanzia. È il cognome che avevano alcuni amici del liceo, e alla fine è diventato una sorta di riconoscimento dei miei personaggi. Ha creato una famiglia ideale, immaginifica, che ha dei tratti unici. Ci sono dei nomi, poi, che accompagnano questo cognome; e ogni singola associazione fa riferimento a un particolare carattere, qualcosa che, per me, esiste, che c’è e che conosco per bene. È uno strumento che mi permette di prevedere i comportamenti che avranno i singoli personaggi.

È una mappa, insomma.

Più uno schema, in realtà: uno schema che si è costruito nel tempo, nei film fatti. Se vuoi, questi nomi e cognomi messi insieme sono come degli avatar. E in fase di scrittura, li mando in avanscoperta alla ricerca di sensazioni e sentimenti.

La famiglia resta il grande tema del nostro cinema e della nostra televisione. Perché, secondo te?

Perché la famiglia è un collante fortissimo nella società italiana. L’ha quasi plasmata a sua immagine e somiglianza. Si è quasi trasformata in una specie di paracadute per quelli che inciampavano. Altri paesi hanno una struttura familiare molto più fragile. I figli vanno via di casa abbastanza presto, e non si avverte questo senso profondo di dipendenza. E questo porta a una conseguenza specifica.

Quale?

L’individualità, come concetto e come approccio alle cose, è più sviluppata.

Ed è un male?

Io credo che nel nostro paese, quando c’è una crisi o quando c’è un disagio profondo, resiste la rete di sicurezza della famiglia. Questo secondo me è importante. Se perdi il lavoro, sai a chi chiedere aiuto. Se sei in difficoltà, sai a chi rivolgerti. È un tratto incredibilmente italiano, intendiamoci. In America, per esempio, non c’è una cosa simile.

Quindi perché si presta così bene, un aspetto così positivo, al racconto drammatico?

Perché nella famiglia alla fine c’è di tutto. Ci sono anche gli scontri e le divergenze. C’è, in una forma ridotta ed embrionale, la società. Ci sono opinioni differenti; c’è la voglia, a volte, di prevalere. E poi c’è il desiderio di aiutare l’altro. È un sentimento estremamente forte: un sentimento che ci è stato tramandato, e che noi continuiamo a tramandare ai nostri figli.

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Che cosa significa “mucciniano”?

Visto dall’interno, è difficile da dire.

Dall’esterno, invece?

Forse riassume determinati comportamenti e dettami. Forse è come una corsa a ostacoli per i personaggi, che vivono esistenze compresse, schiacciate dallo stress emotivo, umano e finanziario. Forse, è un insieme di sentimenti diversi. Dalla paura alla disperazione, e dalla speranza alla fiducia tradita. I miei personaggi fanno costantemente dei bilanci, e vedono i loro fallimenti e i loro successi. Sono umani. E in questa umanità, quello che accade è un tumulto. Ed è questo tumulto, poi, che porta i vari personaggi ad attraversare il mondo degli adulti e la famiglia senza una direzione precisa.

Che cosa provoca questo disorientamento?

L’incomunicabilità. Per questo nei miei film, i personaggi si parlano addosso, non si ascoltano, urlano. È il loro modo di esprimere disagio e inquietudine. Vogliono essere ascoltati. Vogliono essere notati perché esistono, e vogliono essere visti dagli altri.

Quanto è importante per te, come persona e non solo come regista, non prendersi troppo sul serio?

È fondamentale. Quello che racconto è qualcosa di personale, sì, e fa parte della vita – anche della mia vita, lo preciso. Il tragico e il comico vanno a braccetto. E di questa cifra il cinema italiano si è nutrito per interi decenni. Dal neorealismo alla commedia all’italiana, il comico fa parte della nostra drammaturgia. Pensa al teatro; pensa a Eduardo De Filippo. Noi vogliamo tenere insieme questi due estremi, perché solo tenendoli insieme riusciamo – noi, da questa parte, e i personaggi, dall’altra parte – a trasformare la condizione di vinti nel ruolo di antieroi.

Ma noi questa cosa, come cinema e televisione, la sappiamo ancora fare? Ci sono ancora dei personaggi così completi, pieni di commedia e tragedia? Te lo chiedo anche come spettatore.

Come spettatori, ci ritroviamo davanti a un cinema che non ha un’idea chiara. Non viviamo più in un’epoca di produttori coraggiosi, pronti a investire nel reparto della scrittura. Non ci sono nemmeno più gli stessi – chiamiamoli così – filoni.

Oggi che cinema c’è?

È tutto molto confuso e casuale. Ci si affida completamente all’ingegno e all’intuito dell’autore. Io, però, non posso parlare a nome del cinema italiano. Perché io sono io, e quello che faccio è estremamente personale. Come, per dirti, è personale quello che fanno Moretti, Sorrentino, Tornatore, Garrone e Özpetek.

Che significa, in questo caso, “personale”?

Che ognuno di noi ha un tratto unico, che lo definisce. E che è un’eccezione. Non tutto il cinema italiano è così come lo intendiamo noi, e va bene. È giusto.

Una volta era diverso?

Una volta c’erano Scola, Risi, Age e Scarpelli. Una volta c’erano Zampa e Monicelli. Quel tipo di industria non esiste più.

Insisto: che industria era?

Un’industria fondata sulla condivisione, su una visione di insieme. Ecco, quell’idea non c’è più. Il nostro cinema riesce ancora, a volte, a essere apprezzato dal nostro pubblico. Nella fruizione dello spettatore questo spirito agrodolce, a metà, queste filosofie di vita elevata resistono. E resiste pure l’umorismo che abbiamo nei confronti della vita, e nei confronti delle disgrazie che essa porta. Alcune regioni, ovviamente, hanno un senso diverso di come si sta al mondo. Questa unicità, queste differenze, sono quello che rende estremamente interessanti i nostri film.

Per te, come regista, qual è la cosa che conta di più? Le belle immagini o gli attori?

Gli attori sono i pistoni del motore. Se non funzionano quelli, la macchina non andrà lontano. Per me sono la prima cosa. Insieme a loro, conta la scelta del linguaggio, come muoversi, come porsi in scena. Se è nevrotico o contemplativo. E a seconda di questo linguaggio, il film e il suo andamento avranno una specificità e una riconoscibilità. La fotografia deve rispecchiare l’anima del racconto. Le immagini, in questo, seguono. Ma non sono secondarie: sono un sostegno fondamentale.

In A casa tutto bene torna una dimensione teatrale.

Nel film sì, era assolutamente così. C’era anche l’idea drammaturgica di questa famiglia che si incontra per stare insieme e che, per una mareggiata, viene costretta a rimanere nello stesso lungo, per più tempo. E così vengono giù le maschere, i sorrisi finti, le frasi di circostanza. È una cosa che succede ogni volta che c’è un racconto corale. In A casa tutti bene, la serie, si viaggia di più. I personaggi si spostano. Ed è un aspetto, secondo me, è interessante.

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Perché?

Perché possiamo vedere gli italiani in un altro contesto. Quando ci spostiamo, quando ci ritroviamo in un’altra città o in un’altra provincia, per non dire in un altro paese, siamo stranieri. E dobbiamo trovare un equilibrio. Capire come muoverci. Ricominciamo.

Prima mi dicevi dell’importanza che hanno gli attori. Emma Marrone, con te, ha lavorato molto ultimamente. Che cosa hai visto in lei?

In Emma ho riconosciuto immediatamente una grande autenticità. E l’ho riconosciuta fin dai nostri primi incontri. Poi le ho fatto un provino per Gli anni più belli, e ho trovato esattamente quello che cercavo. La sua forza. La sua presenza. La sua immediatezza. E poi la sua onestà.

Onestà?

Sì, ha un modo sincero di stare al mondo: una cosa che riesce a mostrare anche in scena. Il suo personaggio è vibrante, lineare, forte. Ed è una caratteristica che Emma sa portare benissimo sullo schermo. Il tema della famiglia, volendo, può essere esteso all’infinito.

Quando si capisce di non aver più niente da dire?

L’animo umano è talmente pieno di sorprese, di risvolti e di traumi da risolvere che è veramente difficile trovare un confine da non superare. Questo insieme di cose è stato raccontato ovunque, in qualunque linguaggio. L’animo umano è un mistero, ed è propulsivo per la richiesta drammaturgica di un racconto.

Non è facile, insomma.

No, non lo è. E in questa seconda stagione di A casa tutto bene, secondo me, si nota. Non è una serie vera e propria; io l’ho immaginata come un film lungo otto ore, interrotto unicamente dai cliffhanger di fine episodio. E ti dirò di più: ho imparato molto dal linguaggio televisivo.

Per esempio?

La gestione del tempo e un nuovo modo, più profondo, di analizzare i personaggi. Scrivere una serie su una famiglia e sull’animo umano è stato semplice. Mi ha preso. Mi ha coinvolto. Sapevo immediatamente dove andare, e fin dove potermi spingere. Siamo arrivati all’abisso, ed è un abisso in cui ognuno di noi può rivedersi.

Stai pensando a una terza stagione?

L’idea è intrigante, non lo nascondo. Ma per adesso non ho nuove storie da sviluppare. La seconda stagione è nata con un impeto incredibile ed è stato facile metterla su carta. Per una terza stagione bisogna ragionare con calma, per non ripetersi e per non annacquare quello che abbiamo già mostrato. Se va fatta, va fatta come un terzo atto utile alla storia di questi personaggi.

A proposito di serie: tempo fa si parlava di un tuo progetto sulla famiglia Gucci. È ancora in piedi?

Se ne è parlato, sì. Ma i progetti non si scelgono così, a tavolino. Si scelgono a seconda della disponibilità, di quello che si può fare e dire, di quello che si ha intenzione di mettere in scena. E poi di quello che è stato scritto. Il nostro mestiere è un mestiere molto volatile; insegui il prossimo film convinto di poter trovare la storia migliore per te.

Nel tuo caso, come ti muovi? Che cosa ti guida?

La paura. Quando ho paura di raccontare qualcosa, mi ci fiondo. La paura di sbagliare mi accende, letteralmente. Mi mette sul chi vive, e mi costringe a dare il massimo.

Di che cosa hai paura, ora?

Di quale film, vuoi dire? Non lo so. È ancora un’incognita. Proprio com’è stata un’incognita ogni mia opera. Prima di iniziare, prima di lavorare, non so dire con precisione quello che sarà il film. Il set, a volte, è come una battaglia.

E come si vince questa battaglia?

Devi essere in grado di rendere interessante le scelte che fai, di lavorare con gli attori e di non essere banale. E non è facile; non lo è per niente. La vittoria non è scontata.

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