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Sono femminista (e sono in buona compagnia)

Cronaca di una giornata a Montecitorio per parlare di violenza di genere e diritti delle donne.
A cura di Angela Marino
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Credevo che definirsi ‘femminista’ nel 2017 fosse una specie di vezzo, una eccentricità per nostalgiche dei tempi delle suffragette o dei decenni in cui sii sfilava al grido di “l’utero è mio e lo gestisco io”.  In definitiva una battaglia inutile. Mi vergogno ad ammettere che solo di recente ho capito quanto sia fragile la posizione della donna nella società, perfino in quella occidentale, dove ci prendiamo anche il diritto di giudicare ‘barbare’ le culture di altri Paesi mentre, nelle nostre case si perpetuano inumane forme di schiavitù psicologica o di violenza fisica.

Ho studiato i dati della violenza di genere, i numeri dei cosiddetti ‘femminicidi’ delle aggressioni, della violenza domestica, le grafiche degli stupri e delle denunce per stalking, eppure non avevo capito niente fino a quando, oggi, non le ho viste tutte insieme, compatte, unite, forti di un solo immenso corpo vibrante di rabbia e dolore. Erano sedute sugli scranni dove siedono i deputati, nella maestosa aula di Montecitorio dedicata all’evento In quanto donna. Attente, serie ma sorridenti. “Quando mio figlio ha saputo che ero qui mi ha detto: mamma non farti pizzicare a dormire come fanno gli onorevoli!”. Si rideva, si scherzava, ci si abbracciava come quando ci si riunisce tra parenti, solo che la famiglia ritrovatasi sotto le volte di Montecitorio, è quella delle donne sopravvissute alla violenza, delle operatrici di settore, delle volontarie, delle esponenti delle forze dell’ordine e delle superstiti alle vittime.

E poi c’ero io, giornalista, ma invitata come membro dell’Associazione ‘Manden' che fornisce supporto alle donne ingabbiate in situazioni di maltrattamento e oggi rappresentata dalla presidente Grazia Biondi. Ho provato e condiviso con le altre donne l’immensa emozione di essere in tantissime. “Siete millequattrocento, ha detto la padrona di casa, Laura Boldrini, mai nella storia della Repubblica una cerimonia alla Camera ha ospitato tante persone”. La sua voce era calda di emozione e i nostri applausi erano un lungo ‘grazie’, per averci accolto, per averci dato voce in una sede istituzionale, per non averci riservato la retorica d’occasione.

E poi sono arrivate loro: Antonella Penati, sopravvissuta al figlicidio, Serafina Strano, sopravvissuta allo stupro, Concetta Raccuia, mamma di Sara Di Pietrantonio, sopravvissuta al femminicidio della figlia 20enne; Emanuela De Vito Sopravvissuta a tentato femminicidio;  Blessing Okoedion, sopravvissuta alla tratta e tante altre ancora. Hanno portato in aula piccoli spaccati di inferno interrotti ogni due battute da mani che sbattevano. E ogni applauso era una carezza, un “è tutto finito”, “sei stata bravissima”.

Il ‘teatrino del femminicidio’, come lo chiama chi, con un deprecabile mancanza di rispetto, addita questo nuovo movimento di liberazione come un fenomeno di costume da baraccone, un sistema truffaldino per scroccare soldi allo Stato o per strappare una poltroncina. Come lo considera, cioè, chi non ha capito niente del profondo cambiamento della società in cui vive. Un cambiamento che si esprime attraverso nuove leggi (la proposta sull’omicidio di identità o quello sul sussidio agli orfani di femminicidio) e una nuova dialettica. “Voglio dire grazie alle giornaliste che hanno favorito il cambiamento che ha portato i media alla condanna sociale dei maltrattamenti e delle violenze”, ha detto oggi la presidente Boldrini e un po’, lo ammetto, mi sono inorgoglita di essere una goccia nel mare di quell’informazione che sta mettendo sotto i riflettori la cultura della sopraffazione.

Oggi, 25 novembre 2017, mi sono sentita forte e consapevole. E guardando alle mie spalle, tra i seggi di Montecitorio, ho capito che ero in buona compagnia.

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