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Sei una ragazza e giochi a calcio? Allora sicuramente sei lesbica

Mentre a rappresentare l’Italia ai mondiali sarà solo la nazionale femminile, le ragazze che giocano a calcio continuano a subire pregiudizi e luoghi comuni. Se lo sport è un’attività educativa e sociale, rompere gli stereotipi diventa una fondamentale questione di genere, dentro e fuori dal campo.
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A cura di Roberta Covelli
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Il torneo si svolge in una località di mare non troppo lontana da Milano: con le mie compagne di squadra decidiamo di organizzarci e partecipare, per giocare qualche partita e passare un fine settimana insieme, tra campetti e spiaggia. Abbiamo qualche ora libera prima di dover giocare, quindi ci mettiamo il costume e ce ne andiamo al mare, con il frisbee, un pallone, gli occhiali da sole sulla fronte a tener fermi i capelli. Insomma, siamo sei ragazze qualunque che vanno in spiaggia. Incrociamo un gruppo di ragazzi qualunque, che al contrario nostro stanno rientrando dalla spiaggia. "Queste giocano a pallone, sono tutte lesbiche", dice uno agli altri.

In effetti, ha ragione, almeno sullo sport: io gioco a pallone, ossia a calcio. Ci gioco da poco più di tre anni, anche se in campo non si nota, forse perché non sono portata, o magari semplicemente perché ho iniziato tardi: solo a ventiquattro anni ho pensato che libertà significa anche poter praticare lo sport preferito senza il timore di essere definita maschiaccio.

Ci sono lesbiche nelle squadre di calcio? Spesso. Sono statisticamente di più rispetto al resto della società? Può essere. Cerco una spiegazione e la trovo in quella costante distruzione degli stereotipi che caratterizza il calcio femminile (come in parte anche la danza maschile): se già hai deciso di non nascondere il tuo orientamento sessuale, non hai alcun motivo di lasciare che siano i pregiudizi generalizzati a scegliere le tue preferenze sportive.

E il calcio femminile, per l’appunto, distrugge gli stereotipi di genere: quel vecchio pregiudizio sui maschi stoici e le donne subdole e piagnucolanti, ad esempio, viene ampiamente sfatato su un qualunque campetto di provincia, che si riempie di urla di dolore per ogni minimo contatto tra due ragazzi e che, se invece l'incontro è al femminile, viene animato solo dal tifo (delle panchine, perché gli spalti sono spesso deserti). Salvo qualche eccezione, le calciatrici non si rotolano a terra alla Neymar, non pretendono cartellini, se subiscono un fallo in corsa provano a stare in piedi e a continuare l'azione invece di cercare la caduta plateale: se una ragazza resta a terra dopo un contrasto, preoccupatevi, s’è fatta male davvero.

Insomma, la frase del ragazzo che sconsigliava ai compagni di provarci con noi presumendo l’omosessualità dell’intera squadra mi ha lasciato perplessa, ma difficilmente ne avrei scritto se a una mia compagna, che chiacchierava con un’amica nel corridoio dell’hotel che ci ospitava, non fosse capitato un altro episodio, tutt’altro che piacevole, che conferma quanto siano diffusi luoghi comuni e omofobia in ambito calcistico. È notte, le due ragazze sono sedute in corridoio, non sono abbracciate, non si baciano, non ammiccano, eppure, quando si apre l’ascensore, appena le vede, un uomo esclama "Ecco, lo sapevo io che è pieno di lesbiche!", e si avvicina, ubriaco, verso la sua stanza e verso di loro, continuando a inveire. Non immaginava certo che al suo "Andatevene a dormire", gli sarebbe stato risposto "Si vede che sei stanco, vai a dormire tu". E così carica uno schiaffo di rovescio e lo lascia sospeso di fronte alla ragazza che si alza e lo sfida, chiedendogli che problemi abbia, mentre lui continua a ripetere "Vi ammazzo, brutte lesbiche", sotto l’effetto dell’alcool che, se pure obnubila la ragione, lascia emergere gli istinti peggiori ma profondamente sentiti.

Al di là della violenza, fortunatamente solo verbale, resta quella convinzione che le donne che giocano a calcio siano tutte lesbiche. Non che abbia senso smentire chi lo presuma, visto che, se non altro, a lasciare il dubbio, ci si risparmia maldestri corteggiamenti da parte dell’omofobo di turno (cui è sempre dedicabile una canzone di Lily Allen). Ha senso però tranquillizzare i genitori di bambine appassionate di calcio o le ragazze che si chiedono se sia il caso di entrare in una squadra. Primo, l’omosessualità non è una malattia, né un dramma. Secondo, l’omosessualità non è contagiosa. Terzo, tra calcio femminile e omosessualità non esiste alcuna relazione di causalità.

Alla fine, al torneo, diversi spettatori seguono la finale di calcio a 5 femminile, parteggiando per l’una o per l’altra squadra, applaudendo al bel gioco, commentando le azioni. L’incontro maschile, che si gioca in contemporanea, avrà una platea ben più ridotta. E mentre la nazionale maschile ha dovuto rinunciare al mondiale, saranno proprio le donne a giocarsi la competizione, che inizia proprio questa settimana.

Allora il femminismo, oggi, passa anche dai campetti, dalle squadre amatoriali, là dove si pratica lo sport, qualunque sport, attività che moltissime ragazze abbandonano durante l’adolescenza, quando anzi servirebbe per formare il carattere, aumentare la fiducia in sé stesse, sfogare lo stress (e, secondo alcuni, anche per combattere i rischi di dipendenze giovanili). E la lotta all’omofobia significa anche opporsi ai luoghi comuni che guardano all’omosessualità come a una piaga e al calcio femminile come il più evidente dei suoi sintomi.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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