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“Se vince il No al referendum l’Italia sarà più povera e instabile”: come stanno le cose un anno dopo

A un anno di distanza dalla vittoria del ‘no’ al referendum costituzionale, le previsioni di gran parte dei sostenitori del ‘sì’ non si sono avverate: niente caos politico, niente diminuzione del Pil, niente aumento catastrofico del debito pubblico, niente uscita dall’Euro e nessuna sciagura delle tante ipotizzate si è avverata.
A cura di Stefano Rizzuti
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La vittoria del ‘no’ al referendum costituzionale del 4 dicembre dello scorso anno doveva essere una catastrofe per la politica e soprattutto per l’economia italiana. O, almeno, questo era il messaggio lanciato da molti sostenitori del ’sì’ prima del voto poi finito con una schiacciante vittoria dei contrari alla riforma costituzionale voluta dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. C’era chi parlava di caos politico nel paese, di rischio di nuove elezioni e conseguente ingovernabilità, chi di calo del Pil, dell’occupazione e più in generale di un netto peggioramento della situazione economica del paese.

Il report più catastrofico era stato quello di Confidustria: secondo la Confederazione dell’industria italiana l’economia italiana, con la vittoria del ‘no’ al referendum, avrebbe dovuto perdere in tre anni quattro punti percentuali di Pil e 17 di investimenti, oltre a quasi 600mila unità di lavoro. “Nel 2019 – prevedeva ancora Confindustria – il debito pubblico sfonderebbe quota 144% del Pil. Il reddito pro-capite diminuirebbe cumulativamente di 590 euro e ci sarebbero 430mila poveri in più. Il Paese, già estremamente provato, dovrebbe fronteggiare una nuova grave emergenza economico–sociale, con inevitabili spinte verso soluzioni populistiche”.

Il caos politico

Il report del centro studi di Confindustria metteva in evidenza un primo elemento: “La vittoria del ‘no’ causerebbe il caos politico”. L’ipotesi degli industriali italiani è che il presidente del Consiglio si sarebbe dimesso – cosa realmente avvenuta – ma anche che il presidente della Repubblica non sarebbe riuscito a formare un governo, dovendo così indire nuove elezioni con una legge elettorale diversa per ogni ramo del Parlamento che avrebbe portato a una mancanza di governabilità. Nulla, a parte le dimissioni di Renzi, di tutto ciò è avvenuto: Mattarella ha dato incarico a Paolo Gentiloni di formare un nuovo governo in gran parte uguale a quello precedente. E a oggi, un anno dopo il referendum, il governo è ancora in carica e porterà fino a fine legislatura il suo mandato.

“In gioco c’è il futuro dei prossimi 30 anni”, diceva invece l’allora ministro per le Riforme Maria Elena Boschi. Ma anche in questo caso di cambiamenti, rispetto a un anno fa, non se ne vedono poi così tanti. Renzi, invece, si diceva sicuro che in caso di vittoria del ‘no’ sarebbero tornato “gli inciuci, i vecchi della politica che vogliono mantenere i loro privilegi, tornano i governicchi”. Anche in questo caso, il governo di Gentiloni sembra aver mantenuto una certa continuità con quello del suo predecessore.

Il Pil non cala, anzi

Secondo Confindustria, nel 2017 il Pil sarebbe calato dello 0,7% e dell’1,2% nel 2018, salendo dello 0,2% nel 2019 per una riduzione totale dell’1,7%. Al contrario, in caso di vittoria del ‘sì’ sarebbe salito del 2,3%. Anche la società di rating Goldman Sachs parlò del rischio per “le previsioni di crescita” italiane. Eppure, i dati più recenti sul Pil sembrano dire tutt’altro: secondo l’Istat nel terzo trimestre del 2017 il Pil è aumentato dello 0,4% rispetto al trimestre precedente e soprattutto dell’1,7% rispetto allo stesso trimestre del 2016. La “variazione acquisita per il 2017 è pari a +1,4%”. Secondo le previsioni autunnali della Commissione europea la crescita italiana si attesta invece all’1,5% nel 2017, con un ulteriore aumento dell’1,3% sul Pil nel 2018. Dati positivi ma non troppo, ma comunque ben distanti dalle catastrofiche previsioni di Confindustria.

L’occupazione cresce

Secondo la previsione di Confindustria l’occupazione sarebbe diminuita di 258mila unità con la vittoria del ’no’. In caso di approvazione della riforma costituzionale, invece, Confindustria prevedeva un aumento di 319mila unità. I dati Istat, ancora una volta, evidenziano come la realtà sia più vicina all’ipotesi positiva e non a quella catastrofica lanciata dagli industriali italiani. Secondo gli ultimi dati, l’occupazione è aumentata di 246mila unità nell’ottobre del 2017 rispetto a un anno prima, con un tasso di occupazione dello +0,7%. Così come sono scese sia la disoccupazione all’11,1% (lo 0,6% in meno dell’ottobre del 2016) sia la disoccupazione giovanile in calo di 2,5 punti percentuali rispetto a un anno prima.

Gli investimenti

Anche in questo caso le previsioni di Confindustria erano catastrofiche: “Gli investimenti scendono dell’1,6% nel 2017, del 7,0% nel 2018 e del 3,9% nel 2019, per un cumulato di -12,1%, contro un +5,6% altrimenti atteso (differenza del 16,8%)”. A questa ipotesi si era accodato anche l’ambasciatore Usa in Italia, John Phillips, secondo cui la vittoria del ‘no’ al referendum sarebbe stato “un passo indietro per gli investimenti stranieri in Italia perché il paese deve garantire stabilità politica”. Anche in questo caso le previsioni vengono smentite dai dati Istat: “Rispetto al trimestre precedente, tutti i principali aggregati della domanda interna registrano aumenti, con una crescita dello 0,3% dei consumi finali nazionali e del 3,0% gli investimenti fissi lordi. Le importazioni e le esportazioni sono cresciute, rispettivamente, dell'1,2% e dell’1,6%”.

Il deficit pubblico

Il deficit pubblico sale al 4% del Pil già nel 2018, tuonava Confindustria un anno e mezzo fa. Ma anche in questo caso i dati, a un anno di distanza, sono ben diversi. Le previsioni autunnali della Commissione Ue evidenziano invece come il rapporto tra il deficit e il Pil in Italia sia nel 2017 al 2,1% e nel 2018 è prevista una discesa all’1,8%. Un miglioramento ben diverso dalla disastrosa previsione di Confindustria.

Il debito pubblico

Anche sul rapporto tra debito e Pil si era espressa Confindustria, configurando due scenari possibili: in caso di vittoria del ‘no’ il debito avrebbe superato il 144% del Pil nel 2019; in caso di vittoria del ’sì’ avrebbe toccato solo quota 131,9%. Ma le attuali previsioni della Commissione europea sono persino più positive del miglior quadro possibile tracciato dagli industriali italiani. Il rapporto tra debito e Pil, secondo l’Ue, toccherà il 132,1% nel 2017 (+0,1% rispetto al 2016) e inizierà a scendere nel 2018 a 130,8% per arrivare, infine, al 130% nel 2019.

L’uscita dall’Euro

Ma non era stata solo Confindustria a lasciar presagire disastri in campo economico per l’Italia e per l’Ue in caso di sconfitta di Renzi e della sua riforma al referendum del 4 dicembre 2016. Il condirettore del Financial Times, Wolfgang Munchau, prevedeva un “euro che si sfila” con “l’Italia in prima fila tra le nazioni che abbandoneranno la moneta unica”. La vittoria del ‘no’ avrebbe dovuto innescare “una serie di eventi che solleverebbero dubbi sulla permanenza dell’Italia nell’Eurozona” con il rischio di un “collasso dell’euro tout court”. “L’Europa potrebbe svegliarsi con l’immediata minaccia della disintegrazione” il 5 dicembre, sosteneva ancora. Eppure, anche in questo caso, nulla di tutto ciò è avvenuto e l’idea che l’Italia esca dall’euro non solo non è stata mai neanche pensata dalle forze attualmente al governo, ma anche le opposizioni italiane che in passato hanno dimostrato di avere dubbi sulla permanenza dell’Italia nell’Ue e nell’Eurozona – e che potrebbero andare al governo con le prossime elezioni politiche del 2018 – sembrano ora avere posizioni molto più soft in merito.

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