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Salvador Dalì. Oggi i 25 anni dalla morte di un genio dell’arte

Era il 23 gennaio 1989 quando l’eccentrico artista surrealista scomparve per un attacco di cuore all’età di 84 anni. Incommensurabili il valore e l’influenza della sua arte, un’arte totale che era un modo di vivere.
A cura di Gabriella Valente
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Si compiono oggi i 25 anni dalla scomparsa di uno dei più grandi artisti del ‘900.

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Uno dei più influenti personaggi del secolo scorso, che ha lasciato un segno indelebile nell’arte e nella cultura tutta. Un segno che è destinato a non svanire mai perché l’eredità di questo genio ha una portata straordinaria. È in tal senso che la sua figura rimane immortale.

Era il 1989, il 23 gennaio, quando Salvador Dalì venne a mancare, pochi mesi prima di compiere 85 anni. Ebbe un attacco di cuore, peraltro non il primo, mentre ascoltava il Tristano e Isotta di Wagner. Dopo aver girato il mondo, da Madrid a Parigi a New York, era tornato a vivere in Catalogna, a Figueres, sua città natale. Da quel 23 gennaio sono trascorsi esattamente 25 anni, un periodo di tempo per il quale, tra le diverse generazioni attuali, c’è chi Dalì lo ha “conosciuto” come un proprio contemporaneo e chi invece lo ha studiato sui manuali di storia dell’arte, come pittore, scultore, ma anche designer, cineasta, scrittore.

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Se dici Dalì, dici Surrealismo, e viceversa (anche se, è bene precisarlo, lo spagnolo fece parte del gruppo surrealista solo per breve tempo). Parole chiave che evocano immagini e temi così noti da essere diventati pop nel senso comune del termine, nel senso di popolare, diffuso, di massa. Tutti conoscono Salvador Dalì, tutti lo conoscevano quando era in vita perché era diventato ben presto una star. Immaginiamo, come per gioco, che la scomparsa del 1989 fosse avvenuta invece ai giorni nostri, ai tempi di internet e dei social media: le homepage dei web magazine, e ancor più le bacheche online di tutti noi, si sarebbero riempite di orologi molli, figure metamorfiche, scene oniriche, di ritratti di quell’uomo dallo sguardo folle e i baffetti capricciosi, quei baffi che, acconciati nei modi più originali, sono diventati i più celebri della storia dell’arte.

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Dalì giocava con i suoi baffi, come giocava con ogni altra cosa: con il corpo, con il subconscio, con le parole, con la pittura, con gli oggetti. E giocando, sempre provocatorio e sopra le righe, andava a fondo, analizzava, interpretava e poi sbalordiva. Con una tecnica pittorica magistrale ed una sostanza concettuale densissima, ci ha insegnato a guardare, a individuare i diversi livelli di lettura, ci ha insegnato a “vedere doppio”, come accade letteralmente in molti dei suoi dipinti dove le forme metamorfiche rappresentano contemporaneamente figure differenti, proponendo all’osservatore un continuo ed appassionante cambio di messa a fuoco.

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Il segreto del successo del pittore fu il metodo paranoico-critico, di cui lui stesso parlò nei seguenti termini: “Da più di trent'anni l'ho inventato e lo applico con successo, benché non sappia ancora in cosa consista. Grosso modo, si tratterebbe della sistemazione più rigorosa dei fenomeni e dei materiali più deliranti, con l'intenzione di rendere tangibilmente creative le mie idee più ossessivamente pericolose”. Guardare e dipingere le cose mentre si è in uno stato delirante, ovvero senza filtri razionali e in preda alla paranoia che lascia emergere le pulsioni inconsce. Onnipresenti dunque i riferimenti alla sfera sessuale, a quella amorosa, ai rapporti di potere, alla paura, alla morte, in uno stile che è limpidamente figurativo e realistico, ma di una realtà ulteriore, ovvero di una surrealtà. Il metodo paranoico-critico è ciò che ha permesso a Dalì di far nascere gli “orologi molli” (del dipinto La persistenza della memoria) dalla semplice visione di un pezzo di camembert che si scioglieva al sole. Ed è anche la ragione principale per cui i firmatari del Manifesto Surrealista del 1924, cui lui si avvicinò intorno al 1928, lo apprezzarono ed elogiarono fortemente, finché lo allontanarono dal gruppo per ragioni politiche nel 1934. Dopo questa vicenda Dalì, sprezzante, dichiarò: “Il surrealismo sono io”.

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“Ogni mattina, appena prima di alzarmi, provo un sommo piacere: quello di essere Salvador Dalí”. Un genio – secondo una sua stessa definizione – ambizioso ed egocentrico, stravagante, appariscente, eccessivo ed eccentrico, l’artista di Figueres ebbe molti detrattori i quali criticarono la sua voglia di apparire che talvolta sembrava più forte della sua dedizione all’arte. Più numerosi furono però gli estimatori; tra questi Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi e di conseguenza di un certo pensiero surrealista, che conobbe l’artista negli anni ’30 a Londra in un incontro illuminante: “Finora, ero portato a considerare completamente insensati (o diciamo al 95% come per l'alcool) i surrealisti, che pare mi avessero adottato quale santo patrono. Questo giovane spagnolo con i suoi occhi candidi e fanatici e la sua innegabile padronanza tecnica mi ha fatto cambiare idea”. Dalì convinse dunque persino Freud.

È inestimabile il peso dell'influenza dell'artista catalano. Il suo surrealismo, come stile pittorico e come modo di pensare, senza mai tramontare permane attuale nella cultura odierna.

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