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Sfidò la mafia a 17 anni: la storia di Rita Atria, suicida dopo la morte di Borsellino

A diciassette anni si ribella alla mafia e diventa testimone di giustizia. Grazie a lei parte un’importante inchiesta delle procure di Sciacca e Marsala. Cresciuta accanto al giudice Paolo Borsellino si suicida dopo la strage di via D’Amelio. Lo straziante addio prima di lanciarsi nel vuoto: “Sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta”.
A cura di Angela Marino
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Lei aveva 18 anni, lui, 52. Lei era una picciridda di una famiglia di Cosa nostra, lui il giudice del pool antimafia, lei era cresciuta a Trapani, lui a Palermo. Lui è stato ucciso dalla mafia, lei pure. Sono morti a una settimana di distanza l'uno dall'altra, Paolo Borsellino e Rita Atria, il giudice dilaniato dalla bomba in via d'Amelio, la ragazza gettandosi dal sesto piano di viale Amelia. Uno a Palermo l'altra a Roma. Due vite che la lotta alla mafia ha intrecciato indistricabilmente e che insieme sono finite.

La mafia della valle del Belice

Rita era cresciuta in una masseria nei pressi di Contrada Camarro, a Partanna, paese contadino a pochi chilometri da Trapani. Suo padre Vito faceva il pastore, ma Rita sapeva che era qualcosa di più, perché in casa si facevano strani discorsi, nomi importanti. Don Vito era un uomo d'onore e una mattina di novembre del 1985, venne trovato ammazzato nelle vigne dell'agro trapanese. Morto il capofamiglia, il comando di certi affari passò a suo figlio Nicolò, che al contrario del padre aveva lasciato le campagne e aveva aperto una pizzeria a Montevago, a pochi chilometri da Agrigento. È lì che la moglie Piera lo trovò steso nel suo sangue il 24 giugno del 1991, ucciso a colpi di lupara da altri uomini d'onore della Valle del Belice.

La ribellione di Rita Atria

Vedova di mafia a 24 anni, con una figlioletta di tre, Piera aveva due scelte. Accettare la vita di solitudine monacale riservata alla moglie dei defunti boss e vivere con la carità di Cosa nostra o prendere altre vie. Lasciarsi alle spalle una vita di violenza e prevaricazione che non aveva scelto, in cui si era trovata giovanissima e nelle cui strade accidentate non voleva che crescesse la sua piccola Vita Maria. Allora fece una cosa veramente rivoluzionaria: infilò la porta di casa e andò dritta in caserma, consapevole che la sua vita per come era stata fino ad allora sarebbe finita. Davanti ai carabinieri accusò gli assassini del suocero, quelli del marito, rivelò segreti e affari loschi della sua terra. Rita, che allora aveva solo diciassette anni, rimase colpita da quel gesto di rottura e sentì che era quello l'esempio da seguire.

Testimone di giustizia a 17 anni

Così decise che anche lei avrebbe collaborato con la giustizia dicendo tutto quello che sapeva. Giovane e timida, inesperta, ma sorprendentemente risoluta, anche lei sarebbe entrata nel programma di protezione testimoni. Tale era Rita, una ‘testimone'. Nei diciassette anni della sua giovane vita non aveva commesso nessun reato, aveva assistito a dei discorsi, però, aveva ascoltato nomi, poteva aiutare i giudici a ricostruire gli scenari criminali di quella valle selvaggia e violenta. Cosa avrebbe avuto in cambio? Avrebbe consegnato la sua vita, rinunciato al suo nome, alla sua famiglia, alla sua casa. Per Rita, però, quello era un sacrificio a cui era disposta, per fare la cosa giusta.

L'incontro con Paolo Borsellino

Lei e sua cognata vennero affidate a Paolo Borsellino. Quando fu davanti al giudice provò un po' di timore, ma quando ebbe il coraggio di sollevare gli occhi incrociando quelli del magistrato e vide quelli di lui dietro al fumo del sigaro, ogni paura svanì. Con il tempo lui imparò a guardarla con tenerezza e affetto. Rita diventò la sua ‘Rituzza‘, la sua ‘picciridda' e al suo fianco diventò una giovane donna. La trasferirono a Roma insieme a Piera, in un palazzone di sei piani nel quartiere Tuscolano, da dove la ragazza continuò a studiare per gli esami di maturità. La madre Anna coprì di insulti e la ripudiò.

Esami e blitz

Quando si avvicinò la data degli esami chiese il permesso di tornare in Sicilia. Si presentò in aula scortata da quattro militari armati, di fronte a quella scena nessuno dei professori capì esattamente chi fosse quella ragazza fin quando non lessero il suo tema. Rita consegnò due pagine sull‘attentato che aveva ucciso Giovanni Falcone, parlando di lotta alle mafie e di speranza. Agli orali un professore le chiese a cosa fosse dovuta la scorta armata, e lei rispose che era un segreto, ma presto lo avrebbe saputo. Pochi giorni dopo un blitz mise le manette a 31 mafiosi della frangia trapanese di Cosa nostra. Erano i frutti del lavoro dei giudici Alessandra Camassa, della procura di Marsala e Morena Plazzi, della procura di Sciacca, a cui Borsellino aveva affidato l'inchiesta.

Un'inchiesta di fuoco

Le deposizioni di Rita facevano tremare anche i palazzi del potere. L'onorevole Vincenzo Culicchia, deputato della Democrazia Cristiana e sindaco di Partanna per tre decenni, fu accusato di associazione mafiosa e dell'omicidio del vicesindaco Stefano Nastasi.

La strage di Via d'Amelio

I potentati della valle del Belice cominciavano a cadere grazie al lavoro di quattro donne, due magistrati e due giovani testimoni. Rita aveva superato gli esami, aveva compiuto 18 anni, era passata sotto la protezione  dell'Alto Commissariato e nel giudice di Palermo aveva trovato un modello, un riferimento morale e affettivo. Poi, una domenica di luglio Paolo andò a trovare sua madre, Rita lo seppe dalla tv: il telegiornale trasmise le immagini della strada in fiamme.

La lettera di addio e il suicidio

La domenica successiva, intorno alle 17, la stessa ora in cui era saltato in aria il suo giudice lasciandola sola, Rita si lanciò dal sesto piano di viale Amelia. Pochi giorni prima aveva detto addio alla cognata. Alla madre, che avrebbe distrutto con un martello la lapide della tomba di sua figlia, Rita non riservò alcun saluto.

Al suo giudice lasciò queste parole:

Sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta

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Giornalista dal 2012, scrittrice. Per Fanpage.it mi occupo di cronaca nera nazionale. Ho lavorato al Corriere del Mezzogiorno e in alcuni quotidiani online occupandomi sempre di cronaca. Nel 2014, per Round Robin editore ho scritto il libro reportage sulle ecomafie, ‘C’era una volta il re Fiamma’.
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