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Quella volta che Umberto Eco sbagliò un verbo

Nel suo romanzo “Baudolino”, pubblicato nel 2000, Umberto Eco fece un errore nella coniugazione del passato remoto del verbo ‘convenire’: scrisse ‘convenirono’ invece di ‘convennero’. Apriti cielo? Apriti cielo: non mancò chi con sussiego lo giudicò grave. Ma vediamo perché si tratta di un errore… regolare.
A cura di Giorgio Moretti
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Il passato remoto di ‘venire' è “io venni, tu venisti, egli venne, noi venimmo, voi veniste, essi vennero”. Scrosci di applausi. Ma si tratta di un verbo irregolare, che quindi, per quanto comune, è sempre un po' scivoloso, come un gradino in ombra. Ora, quando si parla di verbi irregolari, un genere di errore piuttosto frequente è l'opzione per forme analogiche: in pratica, capita spesso che l'errore consista nella regolarizzazione delle irregolarità.
Nel nostro caso un errore d'analogia sarebbe dire o scrivere "io venii" o "egli venì" (invece di "io venni" ed "egli venne"), coniugazioni del passato remoto di ‘venire' articolate come se fosse un verbo regolare, al modo di ‘dormire' o ‘sentire'. Questi errori si ripercuotono ovviamente su tutti i verbi che si coniugano come ‘venire', e non sono pochi: intervenire, sovvenire, divenire, convenire (che è quello che ci interessa), pervenire, svenire, addivenire e via dicendo (saranno una ventina).

Come anticipato, in "Baudolino", libro di grande successo di Umberto Eco, lettori attenti rinvennero (!) un errore nella coniugazione del passato remoto di ‘convenire': un ‘convennero' per analogia divenne (!) ‘convenirono'. Ci fu chi lo corresse in maniera divertita ("Anche Eco sbaglia i verbi!") ci fu chi lo corresse con sussiego sdegnoso ("Che errore grave, non me lo aspettavo da uno come lui") ci fu chi lo giustificò dicendo che la forma ‘venirono' è semplicemente poetica, arcaica, e qualcuno avanzò l'idea che avesse scelto deliberatamente di usare questa forma.

Chi afferma che una coniugazione regolare di ‘venire' è fuori norma, ha senz'altro ragione. La norma invalsa esige tutte le sue irregolarità. Ma ci sono due considerazioni da fare chiudendo così la questione, mano già sulla maniglia della porta.

Gli errori di analogia, da parte di stranieri e no, di bambini e no, sono errori grossolani, ma comuni e veniali. Perequano le asperità (belle) della lingua, come chi per fretta o distrazione non segua la curva dell'aiuola ma vi cammini dritto attraverso, nonostante il cartello "Vietato calpestare…". Se lo fa uno, ha infranto la norma. Ma quando nell'aiuola c'è il sentiero, aperto dal semplice passo, la norma cambia.
La lingua è un sistema normativo, ma non ha un sovrano. Ogni sua norma è una norma di consuetudine. Ogni infrazione alle norme consuetudinarie può essere letta sia come un errore, sia come contributo a una nuova consuetudine. E quando la nuova consuetudine diventa effettiva, ecco una nuova norma.

Le forme verbali analogiche che rendono il ‘vennero' ‘venirono' non sono norma: da una semplice ricerca su Google si può apprezzare come le forme irregolari (giuste) superino di migliaia di volte l'uso delle forme analogiche (sbagliate). Ma si deve avere ben chiaro che non ci muoviamo in un sistema normativo dotato di leggi scolpite e tribunali: il rapporto fra norma ed errore è solo un rapporto di forza fra correnti.

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Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito “Una parola al giorno”, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro “Parole di giornata” (Il Mulino, 2015).
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